mercoledì 21 giugno 2017
Un mese dopo l’attacco in cui sono stati massacrati 29 fedeli copti, le testimonianze di orrore e speranza. «Ci hanno puntato la pistola. Poi ci hanno lasciato andare»
Il monastero di San Samuele

Il monastero di San Samuele

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Un mese dopo l’agguato jihadista in cui hanno perso la vita 29 cittadini egiziani copti e altri 24 sono stati feriti mentre si recavano al monastero di San Samuele, nel governatorato egiziano di Minyia, orrore e speranza si intrecciano nelle testimonianze di alcuni dei sopravvissuti al massacro. Il 25 maggio scorso, il piccolo Mina Habib, di 10 anni, viaggiava su di un furgoncino insieme al padre Adel e al fratello maggiore Marco, di 14 anni. Il veicolo, ha raccontato Mina, è stato fermato da uomini in tuta militare.

Più avanti sulla strada (un tratto desertico di statale, a circa 220 chilometri a Sud del Cairo) erano visibili gli altri due autobus del convoglio e cadaveri insanguinati abbandonati sulla strada. «Hanno chiesto a mio padre il suo nome e poi di recitare la professione di fede islamica. Ha rifiutato, ha detto che era cristiano. Hanno sparato a lui e a tutti gli altri nel camioncino», ha riferito il bambino. Gli assalitori erano «una quindicina».

Mina non sa perché abbiano risparmiato lui e il fratello: «Ci hanno visto in fondo al furgoncino. Ci hanno fatto scendere e un uomo con una tuta come quella dell’esercito ci ha puntato la pistola contro, ma un altro vestito tutto di nero gli ha detto di lasciarci andare. Ogni volta che sparavano a qualcuno, urlavano “Allahu akhbar”». Ai giornalisti, il fratello Marco ha precisato che i miliziani «avevano accento egiziano» e «sembravano come noi, senza barbe». Altre testimonianze permettono di ricostruire la dinamica dell’attentato: gli jihadisti hanno sparato contro i finestrini dei due veicoli di testa; poi, una volta saliti a bordo, hanno ucciso gli uomini e gambizzato bambini e donne.

Testimoni oculari hanno visto strappare alle donne gioielli e orologi d’oro. Nella sparatoria, uno pneumatico di una jeep degli attentatori si è bucato: sarebbe per questo, secondo una delle ipotesi al vaglio, che i terroristi hanno bloccato il furgoncino su cui viaggiava la famiglia Habib. Dopo l’attentato, una volta fuggiti i killer, Marco Habib è riuscito a bloccare un’auto e a farsi dare un passaggio, insieme al fratello, verso la salvezza. Per il coraggio dimostrato, ora i due ragazzini sono chiamati dai vicini «cuor di leone». «L’allarme è altissimo in Egitto», spiega ad Avvenire monsignor Shenouda, direttore del Seminario del Cairo, sottolineando che i terroristi «erano al corrente della gita al monastero perché il gruppo si era organizzato su Facebook».

Ma il religioso ci tiene a dare anche un messaggio di speranza: «Sono a conoscenza, grazie a colleghi e amici, di alcune storie di grande fede: ad esempio, quella di una donna che era seduta sui gradini di uno degli autobus assaltati. Il marito e il fratello sono stati trucidati dagli jihadisti, saliti sul retro, per non aver rinnegato la propria fede, mentre lei e il suo bambino sono stati risparmiati. La signora sostiene che uno dei terroristi, dal viso gentile e rassicurante e dai tratti europei, ha interceduto per loro. Quasi un angelo, che le ha suggerito di dare tutto il proprio oro e di stringere forte a sé il figlio».

A seguito del massacro, la comunità cristiana d’Egitto ha deciso di cancellare alcuni campi estivi e di farsi scortare dalla polizia per i tradizionali pellegrinaggi, ma, racconta ancora padre Shenouda, «i fedeli sono più che mai decisi a testimoniare con la vita ciò in cui credono».

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