L'aula del processo per la strage del Bataclan - Ansa
Silenzio assoluto, nell’aula strapiena, per l’atteso verdetto sulla notte più dolorosa della recente storia francese. Quella del 13 novembre 2015, quando la follia fanatica dei commando jihadisti trasformò la scintillante Ville Lumière in un lago di sangue, in mezzo alle sirene e alle urla dei sopravvissuti agli assalti armati, in un clima d’orrore presto rimbalzato sugli schermi del mondo intero. E quel bilancio: 130 morti poi divenuti 131, accanto ad oltre 400 feriti, di cui molti rimasti definitivamente menomati.
Ieri, dopo una giornata d’attesa e d’incertezza sull’ora precisa del verdetto, i 5 giudici del maxi-processo cominciato lo scorso autunno, il più lungo della storia giudiziaria transalpina, sono entrati in aula all’ora di cena: quasi mossi dal bisogno d’interpretare una sorta di rituale catartico indirizzato alla Francia e forse a tutta l’Europa tramortita dalla stagione delle stragi jihadiste.
Davanti a loro, alla sbarra, 14 imputati, fra cui l’unico superstite dei commando stragisti, Salah Abdeslam, di nazionalità francese pur provenendo da quel Belgio divenuto la base dei gruppi di morte. Lo stesso 32enne detenuto da anni in isolamento che durante il processo si è mostrato a tratti persino spavaldo, per poi implorare in extremis clemenza con queste parole: «Ho fatto degli errori, è vero, ma non sono un assassino. E se mi condannate per omicidio, commetterete un’ingiustizia». Oltre ai 14, pure altri 6 imputati non presenti, giudicati in contumacia, benché spesso considerati già morti nella congerie delle contrade mediorientali del jihadismo.
Un collage dei volti delle vittime della strage del Bataclan - Ansa
Presenti o assenti, i 20 imputati sono stati tutti condannati, quasi sempre per tutti i capi d’accusa. Nel caso di Abdeslam, riconosciuto pienamente responsabile d’aver partecipato a un’associazione terroristica, i giudici hanno respinto la versione del diretto interessato, pronto a dichiarare durante il processo d’aver rifiutato in extremis d’azionare la propria cintura esplosiva, a differenza di tutti gli altri terroristi morti nella notte del 13 novembre. Per i magistrati, la tesi da accreditare è quella d’un semplice difetto di funzionamento.
Anche per questo, il 32enne è stato considerato a pieno titolo co-autore delle stragi, alla luce di tutte le mansioni chiave svolte al servizio degli altri. Fu lui, ad esempio, a condurre allo Stade de France i terroristi che cercarono invano di penetrare nello stadio durante lo svolgimento della partita Francia-Germania, in presenza pure dell’allora presidente francese François Hollande. Fu lui a uscire dalla Renault Clio poi ritrovata ai piedi di Montmartre.
Secondo la logica accusatoria che ha guidato tutto il processo, Abdeslam è stato dunque condannato alla pena massima: l’ergastolo senza possibilità di sconti di pena. Il 32enne era già stato condannato in Belgio a 20 anni per aver partecipato alla sparatoria che ha preceduto il suo arresto.
E ad attenderlo è pure un altro processo a Bruxelles per gli attentati del 22 marzo 2016. L’altro imputato chiave a Parigi, Mohamed Abrini, 37 anni, proprio «l’uomo con il cappello» dei successivi attentati a Bruxelles, è stato condannato all’ergastolo, con 22 anni di pena minima non comprimibile. A partire da 2 anni le pene per tutti gli altri, talora dei complici laterali. Ma al di là delle pene, secondo gli esperti, restano ancora non poche zone d’ombra sui retroscena delle stragi, rivendicate dal Daesh.