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Jared Kushner come un nuovo Metternich. Anche se le competenze in politica estera del genero di Trump provengono solo dalla lettura del “New York Times” (e forse non è poco in confronto a ciò che mostrano di conoscere altri statisti contemporanei - sia lecito il commento, il cui tono è adeguato alla vicenda che andiamo a raccontare).
Ma come consigliere del presidente degli Stati Uniti, Kushner ha anche preso lezioni private dal nonagenario ex segretario di Stato Henry Kissinger. La combinazione tra l’ascolto del genero a scapito dei ben più titolati ministri e generali che lo attorniano e la volontà di distrarre l’opinione pubblica dai (presunti) scandali interni sarebbero state le motivazioni della capriola di Trump sulla Corea del Nord.
Dalla guerra alla "resa" con Kim
Dalle minacce di una guerra atomica, le cui conseguenze non gli sarebbero state minimamente chiare, a un’offerta di pace quasi incondizionata, con la denuclearizzazione della penisola asiatica e, addirittura, il ritiro delle forze americane. Una resa a Kim da fare rizzare i capelli in testa ai vertici militari.
Allettato dalla prospettiva di vincere il Nobel per la Pace, il capo della Casa Bianca andò a Singapore nel giugno del 2018 forte solo della sua convinzione di essere un grande negoziatore, pur privo delle più basilari informazioni sullo scenario strategico.
“Il presidente non sembrava in grado di assimilare alcun tipo di dettaglio: geografico, economico, militare, storico. Si cominciò a pensare che non riuscisse a trovare la penisola coreana sulla cartina”, scrive Michael Wolff a pagina 178 di “Assedio. Fuoco su Trump”, il secondo volume sui segreti della presidenza Usa, uscito in contemporanea mondiale il 4 giugno, in Italia pubblicato da Rizzoli.
Il primo libro di Wolff su Trump, “Fuoco e Furia”, che si avvaleva della testimonianza diretta dell’autore, attivo alla Casa Bianca all’inizio del mandato, ha venduto 4 milioni di copie e suscitato aspre polemiche sulla veridicità dei racconti distruttivi intorno al “comandante in capo” Usa.
Tutti i veleni di Bannon, anche sull'Italia
In questa sua nuova fatica di oltre 400 pagine Wolff fa ancora una volta a pezzi Trump e il suo inner circle, con la “complicità” dello stesso ex “consigliere nero” Steve Bannon, a sua volta bersaglio in “Fuoco e Furia”. Come mai il teorico del sovranismo si sia prestato a rivelare retroscena imbarazzanti non è chiaro. Una mezza vendetta, forse, verso chi l’ha allontanato, oppure un’altra operazione opaca, per confondere le acque.
Bannon è anche protagonista di una rivelazione tutta da verificare: dopo le elezioni del 4 marzo sarebbe volato a Roma dall’”amico Salvini” per convincere lui e Di Maio a non sfidarsi per ottenere la poltrona di Palazzo Chigi, bensì a lasciare la carica a un premier di facciata (p. 199). Detto fatto!, commenta Wolff, realizzata la fusione tra estrema destra ed estrema sinistra.
Ma l’”Assedio” è un concentrato, ormai non troppo sorprendente, di rivelazioni e veleni, con coda immediata di smentite, a loro volta in attesa di verifica. Già nella primavera 2018, l’ufficio del procuratore speciale Mueller aveva redatto la bozza di un’incriminazione a carico di Trump, sulla base di tre capi di accusa (pp. 89-91), scrive Wolff. Puntuale il “non è vero” di Mueller. Passando alla famiglia, la First Lady Melania Trump è una moglie per finta: «La coppia aveva stipulato un accordo, un patto alla Katie Holmes e Tom Cruise» (p. 119).
Trump "un caso clinico"
Per Wolff, Trump è più un caso clinico che un caso politico. Un treno lanciato contro il muro, destinato a schiantarsi fragorosamente, davanti a un enorme pubblico affascinato dal disastro imminente. In realtà, i sostenitori del presidente non compreranno il libro né saranno toccati dalla sua mole di racconti, per lo più da fonti anonime. E la popolarità del capo della Casa Bianca non ne sarà scalfita, malgrado il clamore che “Assedio” non mancherà di suscitare.
Michael Wolff, giornalista e scrittore di fama, 65 anni, ha parlato con il “New York Times” del suo stile di lavoro e della sua idea di “verità”. Un newyorchese con tanti amici in comune con Trump, si definisce, tutti convinti a parlare con la garanzia dell’anonimato. E le verifiche? Ci sono state, dice, ma non nella forma classica dei giornali. I giornalisti che sono legati a un’istituzione, sostiene Wolff, devono fare chiamate di rito agli interessati, per riportare smentite o precisazioni di rito, in una trattativa che non giova alla verità.
Un'idea discutibile di verità giornalistica
Lui, invece, preferisce ricostruire una sua verità. Per questo non ha nemmeno provato a chiedere un colloquio con Trump. O con altri protagonisti del libro. Tutto falso, allora? No, probabilmente no. Ma ci si può chiedere quanto un’operazione del genere faccia bene alla politica americana o se non alimenti semplicemente una contrapposizione sorda e rancorosa su un ring in cui la verità finisce presto al tappeto.