lunedì 6 dicembre 2021
Christos Christou è il presidente internazionale di Medici senza frontiere, che il 22 dicembre compie 50 anni: «Non si cambia, continueremo ad alleviare le sofferenze di chi è abbandonato»
Un’équipe di Medici senza frontiere assiste una donna ferita nel terremoto di Haiti del 12 gennaio 2010

Un’équipe di Medici senza frontiere assiste una donna ferita nel terremoto di Haiti del 12 gennaio 2010 - Msf

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«Non importa quanto sia difficile. Quanti ostacoli ci creino i governi, quanti conflitti esplodano, quante pandemie e catastrofi ci troviamo di fronte. Noi indossiamo il camice e raggiungiamo gli angoli più remoti del pianeta perché nessuno muoia senza speranza. La speranza che a qualcuno importa di lui e del suo dolore ». Christos Christou è quanto di più distante dallo stereotipo del chirurgo burbero, cinico e distaccato alla Doctor House della tv. Eppure ha trascorso gli ultimi decenni nei reparti di emergenza, prima ad Atene e Londra, poi, dal 2002, in giro per il mondo con Medici senza frontiere (Msf).

Ha operato mutilati della guerra civile in Sud Sudan, feriti degli attentati in Iraq, migranti ridotti in fin di vita dai viaggi della disperazione sulle isole greche. Non teme, però, di parlare di speranza. «È il fondamento della nostra missione. Esistiamo per alleviare le sofferenze delle persone abbandonate, dimenticate, emarginate. E possiamo riuscire solo se siamo capaci di infondere loro la speranza che insieme possiamo farcela». Lo ha detto due anni fa quando è stato eletto come presidente internazionale dell’organizzazione. E lo ripete ora, alla vigilia del 50esimo compleanno di quest’ultima. Il 22 dicembre sarà trascorso mezzo secolo esatto un gruppo di tredici pionieri, tra medici reduci dall’emergenza in Biafra e giornalisti francesi riuscì a mobilitare il primo gruppo di trecento volontari che avrebbe dato vita a Medici senza frontiere.

Molto è accaduto nel frattempo, incluso il Nobel per la Pace nel 1999. E molto è cambiato dentro e fuori dall’organizzazione, che conta ormai progetti in oltre 80 Paesi e più di 65mila operatori umanitari sul campo. «E tanto ancora accadrà e cambierà – afferma il dottor Christos Christou –. L’essenziale, però, è rimasto e rimarrà immutato, anche nei prossimi cinquant’anni. L’ho imparato nella mia esperienza di chirurgo».

A che cosa si riferisce?
Come tutti i chirurghi, quando lavoro, la mia preoccupazione centrale è mantenere vivo il paziente. Questo è l’essenziale: la vita delle persone, di ogni persona. Poi viene tutto il resto. Cerco di ricordarlo sempre ora che sono lontano dalla sala operatoria e devo gestire un’organizzazione complessa come Msf. I piani, le strategie sono importanti ma come strumento per proteggere la vita degli esseri umani.

A cambiare, invece, sono le sfide che vi trovate di fronte. Quali sono le principali?
Sono molto cambiate. Quando abbiamo cominciato e fino a non tanto tempo fa, ci chiamavano «angeli », «eroi», «samaritani». Ora ci considerano complici dei trafficanti di esseri umani o dei terroristi...

Che cosa intende?
Tra le principali criticità che ci troviamo di fronte ci sono la criminalizzazione degli operatori umanitari – di tutti, non solo quelli di Msf – e la tendenza crescente a vederli come nemici.

Per quale ragione accade?
Gli Stati – non parlo esclusivamente dei regimi autoritari ma anche delle grandi democrazie europee e statunitensi – attuano, in misura crescente, una serie di politiche volte a punire e limitare l’aiuto. E tali misure hanno il consenso di buona parte dell’opinione pubblica. Non giudico queste persone. So bene che reagiscono così perché sono confuse e spaventate. I drammi non avvengono più in aree remote del pianeta. Bussano alle nostre porte o sono ormai dentro, e questo ci fa paura. Mi permetto solo di dare un criterio per orientarci in questo momento turbolento e caotico: la carne umana, che tutti condividiamo. L’unica cosa che non possiamo permetterci di perdere è l’umanità.

Quali altre sfide vede?
Una è connessa alla prima e riguarda, soprattutto, alcune zone calde, come il Sahel, la Nigeria o il Camerun. L’irrigidirsi delle normative antiterrorismo, porta a considerare la nostra neutralità e imparzialità – principi cardine del diritto internazionale umanitario – come sostegno al nemico. E, dunque, anche noi finiamo per diventare nemici. La terza grande sfida è il riscaldamento globale. Siamo testimoni delle conseguenze del degrado ambientale sulla salute delle popolazione. La crisi climatica è una crisi sanitaria. Per questo, per la prima volta quest’anno, abbiamo partecipato al vertice Onu sul cambiamento climatico (Cop26).

Che cosa avreste dovuto non fare o fare meglio?
Direi: che cosa dovremmo fare meglio. Non siamo ancora riusciti a risolvere il dilemma dei dilemmi: l’equilibrio tra denuncia e basso profilo per poter continuare ad operare in una determinata zona. Alla fine, sbagli sempre: o per eccesso di cautela o di temerarietà. Certo, si trovano delle strategie, come la diffusione indiretta di informazioni. Ogni volta, però, ti resta sempre il dubbio: ho fatto la cosa giusta?

Qual è, secondo lei, la vittoria di cui Msf può andare più orgogliosa?
La campagna per gli antiretrovirali. All’inizio, la comunità scientifica era dubbiosa. Noi ci abbiamo creduto da subito e siamo andati di villaggio in villaggio per spiegarlo alle comunità. Quando capivano, non solo si sottoponevano al trattamento bensì si mobilitavano per chiedere l’accesso universale a quei farmaci. La loro ostinazione ha costretto, incredibilmente, le case farmaceutiche a cedere.

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