Il piccolo Mario - Carolina Paltrinieri
La speranza nel Tigrai stremato dopo due anni di guerra e fame ha il viso di Mario, venuto al mondo a fatica e subito orfano di madre. Lo hanno salvato ad Adua, all'ospedale missionario delle salesiane Kidane Mehret e gli hanno dato il nome del pediatra volontario che si è preso cura di lui, facendo vincere la vita. Dalla regione del nord Etiopia chiusa per due anni per la guerra civile arrivano le prime testimonianze dei medici volontari italiani, che tramite le associazioni Aspos e Amici di Adwa (www.amicidiadwa.org) hanno avuto il permesso di entrare. Confermano che la situazione umanitaria cinque mesi dopo l’accordo di pace sta migliorando. Finalmente arrivano gli aiuti, sta tornando la corrente, si attende la riapertura delle scuole anche se molte famiglie non hanno notizie dei figli che dai 13 anni in su sono stati arruolati. Inoltre, il 90% delle strutture sanitarie è distrutto e le banche sono a corto di contanti. Infine, non sono ancora partite le truppe eritree alleate di Addis Abeba che occupano zone di confine come Irob, commettendo violenze e soprusi e impedendo il rientro degli sfollati, molti dei quali ammassati in campi improvvisati. I testimoni raccontano storie come quella del piccolo Mario e della sua famiglia, simbolo delle sofferenze patite in questi anni sotto la cappa calata su un conflitto che ha provocato 600mila morti soprattutto con il blocco di aiuti e servizi.
Una regione senza possibilità di ricevere assistenza
600mila
le vittime del conflitto fratricida che ha devastato il nord dell’Etiopia per due anni
90%
La conseguente malnutrizione ha causato alti tassi di mortalità neonatale e materna. «La mamma del piccolo – spiega Mario Atzeni, pediatra veronese in pensione – aveva 28 anni e due bambine. Non ha potuto raggiungere l’ospedale, ha partorito a casa, ma era gravemente malnutrita e ha avuto crisi pesanti di convulsioni per eclampsia». Prima è stata trasportata alle Holy Water, le Acque sante, punto del fiume di Adua ritenuto purificante nelle credenze religiose locali. Poi è stata portata a morire all’ospedale Kidane Mehret. «È arrivata in coma – prosegue Atzeni, al primo viaggio in Tigrai –, debilitata da gravidanza, malnutrizione e dall’eclampsia ed è morta quasi subito. Abbiamo chiesto di visitare il neonato. Era sano e pesava 2 chili e mezzo alla nascita. Ce lo hanno lasciato perché senza madre non sarebbe sopravvissuto, ma dopo una settimana abbiamo cercato la famiglia». L’ospedale missionario dista tre ore e mezza dalla misera casupola di fango, un locale su una strada sterrata di montagna, dove abitano il padre e le due sorelle di Mario. L’uomo ha ammesso che non sapeva come sfamarlo. «Siamo stati scioccati – prosegue Atzeni – e provati emotivamente dopo aver visto la miseria in cui vivono.
Loro come tanti altri. Due anni di guerra hanno riportato indietro di 30 anni una zona povera, ma che stava progredendo. Non potevo restare indifferente, con mia moglie ci siamo impegnati ad aiutarlo con una adozione a distanza fino a 18 anni». Il padre ha firmato davanti agli anziani del villaggio l’affido a suor Laura Girotto, responsabile della missione, che aiuterà il piccolo Mario a crescere in città. In questi ultimi due anni Adua ha accolto 100.000 tigrini fuggiti dalle zone a nord occupate e saccheggiate dai militari eritrei. Molti si ammassano davanti all’ospedale missionario, risparmiato dalla distruzione e unico riferimento per la popolazione e le autorità.
Nel 2022 al Kidane Mehret, rendono noto gli Amici di Adua (chi vuol sostenere la distribuzione di aiuti e l’ampliamento può donare il 5xmille) sono stati assistiti 67.000 pazienti, sono stati effettuati in condizioni spesso proibitive 1.144 interventi chirurgici e ci sono stati 4.385 parti, con 576 neonati in terapia intensiva. E 3.634 pazienti sono stati trattati per malnutrizione acuta. Ora che tacciono le armi, è venuto il tempo della solidarietà per salvare il Tigrai dimenticato.