Il generale Min Aung Hlaing, capo della giunta militare golpista che governa Myanmar - Reuters
Ieri il Myanmar ha ricordato senza celebrazioni (per fortuna) i sessant’anni dal colpo di stato che impose al Paese un controllo militare durato fino al 2010 ma di fatto esautorato soltanto con le elezioni democratiche del 2015. Un evento caduto a poco meno di un anno dalla nuova presa di potere delle forze armate, con il golpe del primo febbraio 2021 che ha imposto il controllo di una giunta guidata dal generale Min Aung Hlaing.
Dal 2 marzo 1962 i militari inizialmente guidati dal generale Ne Win, coscienti di esseri imposti su un Paese che dal domino britannico aveva visto svilupparsi una società civile attiva e determinata, pur agendo con brutalità hanno perlopiù utilizzato la copertura di partiti di facciata, nel tempo: il Partito del Programma socialista birmano, il Partito nazionale per l’unità, il Partito per la solidarietà e lo sviluppo dell’Unione. Quest’ultimo che poneva l’accento su una aggregazione di tutte le forze politiche e etniche della variegata realtà birmana, che non si è mai concretizzata e che resta ancora oggi uno degli elementi d’instabilità del Myanmar.
Nessuno di questi avatar della politica ha mai avuto una parvenza di democraticità, una loro caratteristica, però, è stata per lungo tempo il perseguimento formale della «via birmana al socialismo». Un elemento di «internazionalismo» che ha consentito rapporti privilegiati con l’Unione Sovietica e, in anni più recenti, con la Cina. Paesi che ancora oggi impediscono la condanna del regime nel Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Potere delle armi, forma partitica e socialismo di copertura sono caratteristiche che non si sono esaurite con la fine della dittatura ma che sono proseguite nella propaganda dei partiti filo-militari che hanno cercato di minare il potere della Lega nazionale per la Democrazia indirizzata dal Nobel Aung San Suu Kyi nella parentesi democratica chiusa dall’ultimo golpe. Un gioco di specchi per legittimarsi nella forma davanti al mondo e per garantire comunque, tra dittatura conclamata e facciata democratica, un ruolo-chiave ai militari.
La guerra civile che va inasprendosi, con un elevato numero di vittime e oltre mezzo milione di profughi interni, mostra come le forze armate non abbiamo alcuna possibilità di essere accolte dalla maggioranza dei birmani, ma anche che a essere sconfitta è già adesso la nonviolenza del passato, diventata una guerra di liberazione a cui partecipano tutte le componenti del Paese.