martedì 16 aprile 2024
All'Ospedale Regina Margherita di Torino due cooperative sociali accolgono i giovanissimi e le loro famiglie e grazie a una serie di progetti offrono loro spunti per ritrovare la voglia di ripartire
I ragazzi e le famiglie di CasaOz

I ragazzi e le famiglie di CasaOz

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“C’è un quadro di Magritte che rappresenta un ponte per metà immerso nella nebbia. È un’immagine di speranza: la volontà di andare avanti anche quando non è ben chiaro quale direzione prendere. Ed è un’immagine che descrive perfettamente il nostro lavoro. Perché i nostri ragazzi, spesso, si sentono così. Non sanno bene dove andare… E allora noi offriamo loro un “ponte” per ritrovare la strada verso la loro vita, verso il loro futuro”.

È molto bella la descrizione che la dottoressa Antonella Anichini, neuropsichiatra infantile dell’Ospedale Regina Margherita di Torino, sceglie per descrivere il progetto “Un ponte fra ospedale e territorio”, nato nel 2009 per favorire il reinserimento sociale di adolescenti che affrontano la malattia psicologica. Un’iniziativa che porta l’arte all’interno del percorso di cura. Come strumento innovativo per avvicinare i ragazzi al linguaggio segreto della psiche. Per curare il dolore ma anche per valorizzare le capacità e far emergere sogni e progetti. E per riconquistare la dimensione del rapporto con gli altri.

“Credo sia importante fare una premessa. Oggi, si parla molto della sofferenza psicologica dei più giovani e se ne attribuisce tanta responsabilità a quanto accaduto durante e dopo la pandemia. Le radici di questo disagio, però, sono ben più profonde e si inseriscono in un cambiamento che da tempo attraversa la nostra società” spiega Anichini. “Certo, i ragazzi che soffrono di disturbi psicologici sono sempre di più. E lo vediamo quotidianamente nel nostro ospedale. Ciò che a mio avviso ha segnato una profonda differenza, però, è stato il venire meno di un contesto sociale e familiare che possa aiutare questi ragazzi a “contenere” il dolore, sapendo dar loro un supporto continuo e quotidiano.

I genitori lavorano, i nonni non sempre ci sono, mancano quasi del tutto luoghi di aggregazione che possano offrire uno stimolo educativo, di crescita.

E così i ragazzi sono soli, sempre più soli. In balia di un mondo virtuale sganciato dalla realtà. Nel tempo, ci siamo resi conto che, una volta superata l’emergenza del ricovero, ci trovavamo comunque a un punto morto. Avevamo sempre più la sensazione che mancasse una via d’uscita, che non si riuscisse a vedere un orizzonte temporale più lungo. E così, abbiamo iniziato a ragionare sull’urgenza di offrire a questi ragazzi un percorso diverso. Un percorso che curasse la loro sofferenza ma che, nel contempo, li sostenesse nel ritrovare il loro posto nel mondo e, soprattutto, fra i loro coetanei. Per riconquistare fiducia nella possibilità di creare legami di amicizia, sostegno reciproco, condivisione”.

A dare forma al progetto - e a portarlo fuori dall’ospedale, in una dimensione più ampia, legata anche alla quotidianità della vita - hanno contribuito due realtà torinesi da tempo impegnate nel sociale. La Cooperativa Sociale Mirafiori, i cui educatori lavoravano già a fianco dei medici del reparto di neuropsichiatria infantile del Regina Margherita. E CasaOz, nata per accogliere i bambini in cura in ospedale e le loro famiglie. Un luogo dove sentirsi “a casa” e dove - seppure in un momento difficile com’è quello della malattia - poter vivere una dimensione di normalità.

Ed è proprio nelle sale luminose e accoglienti di CasaOz che trovano spazio i laboratori del progetto “Ponte” - cinema, teatro, musica, arte, fumetto, mente e corpo, fotografia, caviardage - condotti da educatori e da artisti e tecnici di grande professionalità. I ragazzi che li frequentano hanno fra i 14 e i 20/21 anni. Alle loro spalle, percorsi difficili e dolorosi (legati a disturbi psicotici, depressivi e dell’alimentazione, ad autolesionismo, pensieri suicidari, ritiro sociale…..). A unirli, la voglia di ritrovare la rotta, per guardare avanti con la serenità e l’allegria della loro età. E con la consapevolezza di potersi fidare di chi sta loro accanto.

“Credo sia proprio questo uno degli aspetti che porta i ragazzi a partecipare ai laboratori e a frequentarli anche per diversi anni. Scoprire un luogo dove le persone non giudicano ma sostengono” sottolinea Massimiliano Giannelli della Cooperativa Mirafiori. “Un luogo dove possono osare e sperimentare. Sapendo, però, di avere intorno la rete di protezione del gruppo, che supporta e fortifica. E che aiuta non solo ad affrontare la malattia, ma anche a ritrovare sicurezza in sé stessi, a rimettersi in gioco, a riaprirsi alla vita e a riscoprire tutte quelle possibilità da cui ci si era esclusi”.

L’arte come strumento per sviluppare l’immaginazione, che porta con sé la speranza e la voglia di cambiare. E la quotidianità, intesa come vicinanza che sa offrire sempre - anche davanti alle difficoltà più grandi - la cura sostenuta dall’empatia e dalla comprensione. Sono queste le solide basi su cui poggia quel “Ponte” senza il quale, conclude Carla Chiarla di CasaOz, “i nostri ragazzi non avrebbero la possibilità di arrivare in altri luoghi. Di vivere esperienze artistiche di altissimo livello. Di accorgersi delle loro capacità. E soprattutto, di riscoprire il valore delle persone e la ricchezza dei rapporti umani”.

Come racconta Anna (il suo nome, così come tutti quelli che seguono, è di fantasia, n.d.r.) che, quando è arrivata per la prima volta al laboratorio di yoga, la sua voce era sottile, quasi impercettibile, come se non avesse aria sufficiente nei polmoni per poter parlare. Il suo corpo era minuto e nervoso e faticava ad assecondare i movimenti, il respiro, la necessità di fermarsi e darsi tempo.

Oggi, i polmoni di Anna sono pieni d’aria, la sua voce è forte e cristallina. Ed è lei a trascinare le altre ragazze del gruppo. E a cambiarsi, davanti a loro, nello spogliatoio, senza più temere di mostrare quel corpo di cui ha ripreso a prendersi cura.

I quaderni di Marco, che ha sempre amato disegnare, erano pieni di immagini scure, senza volto né identità. Al laboratorio di fumetto, però, quei visi hanno acquistato forma e colore e sono diventati personaggi che hanno ritrovato il piacere dell’incontro con l’altro. Proprio com’è successo a Marco.

Luca adora la musica. Le sue paure, però, spesso sono più forti della sua passione. E allora vorrebbe solo starsene chiuso in casa, da solo, prigioniero di quelle ossessioni che gli sembrano l’unico modo per tenere sotto controllo le sue angosce. Per accompagnarlo al laboratorio di musica servono energia e determinazione. Quando poi, però, si siede al pianoforte, Luca si riapre al mondo e le note allontanano i pensieri più bui.

Per Anna, la felicità è un piatto di pollo arrosto, con contorno di patate… E mentre percorre la strada che dall’ospedale la porta a CasaOz, insieme alla sua educatrice, ne pregusta il piacere di mangiarlo con le mani. E ancor più, immagina la gioia che proverà nel sedersi a tavola insieme agli altri. Perché Anna ha bisogno di nutrirsi, certo, per ridare forza a un corpo logorato, ma soprattutto ha bisogno di non sentirsi più sola.

Anche per Giorgia, che oggi ha 28 anni e sta per laurearsi in giurisprudenza, il laboratorio di cinema è stato un luogo dove ricostruire legami che pensava di aver perso per sempre. “Spesso, arrivavo in anticipo e con gli altri del gruppo chiacchieravamo in giardino. Parlavano di noi, della nostra vita, della scuola …” racconta. “Certo, sapevamo tutti di essere lì per un “problema”. In quel momento, però, ciò che contava eravamo noi e non il nostro “problema”. A fare la differenza era sapere di avere intorno a te una “rete” che ti dava la forza per riuscire ad andare avanti. Nessuno ti giudicava. E quando non avevi voglia di parlare, sapevi di poter stare in silenzio. O di piangere, se ne sentivi il bisogno. Nessuno pretendeva nulla dall’altro. Eppure, sentivi di poter dare e ricevere fiducia”.

Sorride, Giorgia, mentre ricorda i tanti momenti passati a CasaOz, che poi ha continuato a frequentare per aiutare altri, più giovani di lei, che arrivavano con un carico di sofferenza troppo pesante da sostenere da soli. Come quello che, per tanto tempo, aveva gravato sulle sue spalle. Un abuso, subito quando ancora era una bambina. Un tentativo di suicidio, non ancora adolescente. Il ricovero in ospedale e poi in una comunità. Una vita continuamente interrotta, alla quale, però, lei cercava disperatamente di ridare normalità. “E quale poteva essere, per una ragazzina di 14 anni, la normalità? Nella mia testa, era lo studio. Io non volevo fare altro se non studiare. Non mi interessava null’altro se non i libri”.

In quei libri non c’era posto per la violenza che l’aveva investita. Una violenza su cui si era fatta tante domande, rimaste sempre senza risposte. Una violenza che l’aveva fatta sprofondare in un buco nero da dove sembrava impossibile uscire.

“A lungo ho rifiutato ogni aiuto, ogni mano tesa. Le sedute con il medico erano infinite sequele di silenzi. Al laboratorio non volevo partecipare. Io volevo solo stare nel mio mondo. C’è voluto tempo perché riuscissi ad accettare ciò che mi era successo. Quando ho accettato il mio passato, però, ho accettato anche me stessa. E ho capito che potevo riprendere in mano la mia vita.

Giorno dopo giorno, le ferite hanno cominciato a rimarginarsi. E il laboratorio mi è servito tantissimo. Ho imparato a prendermi delle responsabilità. E a capire che, da soli, non si arriva da nessuna parte. Bisogna sapersi fidare e costruire rapporti che ci sostengano e ci facciano crescere”. Fidarsi e farsi aiutare. Anche per Sofia è stata questa la chiave di svolta. “Sin da bambina sognavo di recitare. Un giorno, avevo 12 anni, scopro che nella scuola di mia sorella stanno facendo un casting per un film. Riesco a partecipare alle selezioni e ottengo la parte. Il percorso di preparazione, però, si rivela lungo e faticoso, così come le riprese.

Ero sempre stanca e spesso dovevo saltare la scuola. Vivevo in una realtà differente da quella dei miei coetanei. Dove, però, pensavo di poter fare qualsiasi cosa volessi - perché io ero una “diva” del cinema… - compreso smettere di mangiare se non mi andava più di farlo”.

Il rapporto con il cibo si complica quando Lucia si iscrive a una scuola di recitazione e l’attenzione sul suo corpo, e sul suo peso, diventa sempre più faticosa da gestire.

“Mi imponevo rinunce, pensando che fossero “necessarie” per la mia carriera. E, nonostante fossi ormai adolescente, avevo la taglia di una bambina. Eppure, non volevo rendermi conto di quello che stava accadendo”.

Anche Sofia, proprio come Giorgia, all’inizio si trincera dietro al silenzio.

E quando le propongono il laboratorio di teatro, è titubante.

“Decido di provarci, però. E mi appassiono subito... L’ho frequentato per tanto tempo e ho vissuto momenti indimenticabili. A CasaOz ho riscoperto quanto poteva essere bella la mia vita. Avevo delle difficoltà, certo, ma potevo superarle e, soprattutto, non dovevo più temere di parlare con chi avrebbero potuto aiutarmi. Riuscire a dire al mio medico “sto male, ho bisogno di aiuto” per me è stato un traguardo molto importante da raggiungere”.

Anche Francesco - che frequenta il laboratorio di cinema da un paio d’anni - ha raggiunto un grande traguardo. Si è riappropriato della sua età. E ha scoperto che gli piacciono i jeans... Nella sua mente, aveva creato un “mondo parallelo” in cui viveva come se fosse giù un uomo adulto, vestito sempre e solo in giacca e cravatta.

Il ruolo che gli avevano affidato in un cortometraggio, però, prevedeva che dovesse indossare jeans, t-shirt e “chiodo” in pelle.

“All’inizio, mi guardavo allo specchio e quasi non mi riconoscevo. Mi sembrava di essere un’altra persona. Ero scettico e mi chiedevo se stessi facendo la cosa giusta. Pian piano, però, mi sono reso conto che, tutto sommato, in quegli abiti non ci stavo poi così male. E ho capito che anche ciò che, apparentemente, sembra “stravolgere” la nostra realtà non va temuto, ma solo compreso”.

A volte, per mettersi in gioco, basta poco. Anche solo un paio di jeans.

Da indossare con allegria e leggerezza, per divertirsi e stare insieme a nuovi amici. Senza aver paura di andare incontro al proprio futuro.

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