lunedì 20 maggio 2024
Il sociologo Francesco Belletti, direttore del Cisf: "Alle radici delle situazioni problematiche di oggi lo squilibrio tra consumi e relazioni, e la difficoltà di armonizzare vita privata e lavoro"
La famiglia Peraboni tratta dalla mostra We Home (fino al 31 maggio all'Ambrosianeum di Milano)

La famiglia Peraboni tratta dalla mostra We Home (fino al 31 maggio all'Ambrosianeum di Milano) - Simone Durante

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Le trasformazioni familiari di questo mezzo secolo, la denatalità, il vuoto delle politiche familiari, i nuovi modelli esistenziali, il dovere di mettere sempre al primo posto l’ascolto della realtà. Sono i temi affrontati dal direttore del Cisf, Francesco Belletti in occasione di un anniversario importante, la festa per i cinquant’anni del Centro internazionale studi famiglia della San Paolo, tra i più qualificati istituti di ricerca e anali della realtà familiare a livello mondiale.

Mezzo secolo dalla parte della famiglia. Tentiamo di sintetizzare le differenze tra i nuclei familiari del 1974 e quelli del 2024 con un’immagine. Quale famiglia si trovava cinquant’anni fa aprendo la porta di un appartamento “medio” di una famiglia italiana “media”? E cosa troviamo oggi?

La prima cosa che si incontrava nel 1974 nella casa di una famiglia italiana erano i bambini: quelli nati nel baby boom, che vivevano con due o tre fratelli, insieme a due genitori – e spesso la mamma a casa. Il 1964 è l’anno con il maggior numero di nascite, oltre un milione: ecco, quel milione di bambini nel 1974 aveva 10 anni. Nell’Italia del 2024, invece, se apriamo una porta a caso è molto più facile trovare un anziano solo o una coppia senza figli (a volte anche giovani), in genere un figlio solo, spesso un solo genitore: mamme sole – qualche volta anche papà -, con adulti raramente a casa – se non in smartworking - che passano il tempo tra lavoro, cura dei figli e preoccupazioni per i propri genitori anziani. Non dimentichiamo un elemento decisivo: nel 1974 avremmo trovato un solo televisore, in bianco e nero, che tutti guardavano insieme, la sera. Oggi, invece, a ogni ora del giorno e della notte vediamo in mano a ciascun membro della famiglia una luce azzurrina, uno schermo digitale, e lo sguardo fisso sul video: e non solo in casa, ma anche per le strade, al lavoro, nei ristoranti.

Proviamo a indicare tre cause che stanno alla radice di queste trasformazioni?

Questo cambiamento non è solo italiano, ma ha segnato praticamente tutti i Paesi ad elevata modernizzazione e sviluppo economico, e i motivi sono molti, e strettamente intrecciati. Dovendo sceglierne tre, in primo luogo collocherei uno sbilanciamento eccessivo a favore dei consumi e del mondo dell’economia, che ha “mangiato” i valori di coesione e solidarietà, sia nella società che nella famiglia. Troppa attenzione ai consumi, poca attenzione alle relazioni. Come ha detto Papa Francesco agli Ultimi Stati Generali della Natalità, pochi giorni fa: “le nostre case sono piene di oggetti, e vuote di bambini”. Una seconda causa, strettamente connessa alla precedente, riguarda i progetti di vita e le mappe valoriali degli individui, che hanno posto al primo posto l’autorealizzazione di sé e il proprio progetto di vita individuale, subordinando a questo ogni legame, ogni impegno, ogni possibile alleanza. Per spiegarmi: oggi la felicità si raggiunge da soli, “se gli altri non mi legano”, mentre la famiglia si nutre di una felicità che si raggiunge grazie e attraverso i legami: mi prometto a te perché insieme a te sarò più felice. E lo stesso vale per un figlio: totalmente altro da me, irriducibile alla mia volontà, ma nonostante questo pienezza e completamento di me. Un terzo nodo riguarda il radicale mutamento delle traiettorie di vita delle donne, che giustamente hanno cercato – e trovato, anche se non completamente – una pari dignità, autorealizzazione e opportunità anche nel lavoro. Purtroppo questo mutamento non è stato accompagnamento da politiche che consentissero di “tenere insieme” vita privata e lavoro, né tantomeno da una maggiore simmetria degli uomini nell’impegno familiare (questo, purtroppo, soprattutto nel nostro Paese). Così questa terza causa ne introduce una quarta, che il Cisf ha costantemente denunciato: la colpevole povertà e discontinuità delle politiche pubbliche di sostegno e promozione della famiglia.

In questi anni avete seguito queste evoluzioni con i vostri “Rapporti” che hanno fotografato passo dopo passo nuovi problemi, nuove abitudini e stili familiari. Qual è stato il criterio con cui avete scelto gli argomenti da affrontare?

Il criterio cruciale è stato individuare in anticipo i nervi scoperti della famiglia nella nostra società, analizzandoli con serietà e da diverse prospettive, senza facile scorciatoie interpretative: questo grazie al lavoro di un Comitato Scientifico e soprattutto al sociologo Pierpaolo Donati, che ha coordinato i Rapporti Cisf per oltre trent’anni. Per fare qualche esempio: già nel 1991 denunciavamo l’urgenza di promuovere l’equità tra le generazioni, tema oggi sempre più drammatico, tra invecchiamento e denatalità; nel 2001 abbiamo analizzato i mutamenti delle strutture familiari, pur affermando l’esistenza di un “genoma familiare”, ben prima degli scontri sulle regolazione giuridica delle unioni civili; e nel 2020, parlando di società post-familiare, abbiamo documentato i rischi di una società di soli individui, che desidera e promuove solo relazioni liquide, fluide, instabili.

Nel più drammatico di questi Rapporti, quello del 2020, avete parlato di società post-familiare e avete spiegato che la famiglia è ormai solo una delle tante possibilità a cui un giovane guarda per dare senso al proprio futuro. Una situazione irreversibile?

La società post-familiare non è solo italiana, ma riguarda – lo ripeto - quasi tutti i Paesi ad elevata modernizzazione, e fa parte di quei megatrend globali difficili da contrastare. Forse due elementi possono far sperare che questa tendenza non sia irreversibile: da un lato, permangono, anche nei contesti più “post-familiari”, solide esperienze di famiglie coese, di legami solidali, di progetti di vita capaci di generatività, accoglienza e solidarietà. Pochi o tanti che siano, rimarranno sempre un segno e una testimonianza che la felicità in famiglia è possibile e che il bello è contagioso. Un altro elemento rimanda al fatto che ampie parti del mondo esprimono culture familiari e societarie ben diverse da quelle dell’Europa e del Nord America, ma di queste parti sappiamo poco. India e Cina da sole sono due terzi della popolazione mondiale, l’Africa ha la popolazione che crescerà di più nei prossimi anni, le religioni (soprattutto non cristiane) hanno ancora una forte influenza sui valori e sugli stili di vita individuali, familiari e sociali, e ampie zone del Sud-America e dell’Asia non sono state ancora omogeneizzate dalla globalizzazione consumistica. Quindi non tutto il mondo è Milano, San Francisco o Stoccolma, e mi pare che avremmo molto da imparare, e non solo da insegnare, sui legami sociali e familiari, da queste culture – che poi incontriamo anche nei nostri territori, e l’incontro non è sempre facile.

Uno dei temi su cui avete più spesso insistito è quello dell’assenza di politiche familiari davvero concentrate sull’obiettivo di promuovere il “far famiglia”. C’è qualche differenza a questo proposito tra l’atteggiamento della politica del 1974 e quello del 2024?

Su questo tema il Cisf Family Report 2023 offre un’analisi molto puntuale, a partire dal titolo, “Politiche al servizio della famiglia”. È proprio il “servizio” la funzione più carente, vale a dire il riconoscimento dell’autonomia e della soggettività della famiglia, che la famiglia deve sostenere e promuovere, senza assistenzialismo. Per troppi anni l’intervento pubblico è stato assistenziale, marginale, non strutturale. Questi ultimi anni sembrano però dare qualche speranza: Family Act e Assegno Unico sono stati approvati all’unanimità in Parlamento, e la famiglia oggi non è né di destra né di sinistra (pur con molte criticità ideologiche tuttora presenti). Però molto c’è ancora da fare, e ogni Governo deve farsi un bell’esame di coscienza: compreso quello attuale, che ha lasciato decadere i termini del Family Act, che offriva comunque un disegno organico e strutturale – decisione legittima, quella di non rinnovarlo, purché al suo posto ci sia un disegno esplicito e operativo altrettanto strategico ed organico, che superi i bonus a tempo e gli interventi su pochi ristretti destinatari. Sarà così? C’è quindi ancora molta strada da fare – e per fortuna che le famiglie continuano ad avere una qualche voce pubblica, soprattutto grazie al Forum delle associazioni familiari, a livello nazionale, regionale e locale. Purché non rimanga “vox clamans in deserto”!

Come Centro studi di orientamento cattolico avete sempre avuto come riferimento le indicazioni della Chiesa sulla famiglia. In quale occasione è stato facile raccontare le scelte della Chiesa? E in quale, invece, il compito è apparso più complesso?

In fondo i 50 anni del Cisf corrispondono ad un tempo post-conciliare, e sono stati anni densi di nodi etici, antropologici politici e sociali. Basti ricordare divorzio, aborto, procreazione assistita… ma anche contrasto alla povertà, accoglienza dei migranti, protezione dei minori, questione femminile. Tutti nodi in cui il dibattito civile ed ecclesiale è stato intenso e spesso ideologico – anche nella Chiesa. Come Cisf ci siamo mossi tra due binari: da un lato la convinzione che la Dottrina Sociale della Chiesa offra uno strumento antropologico forte e adeguato per capire e affrontare i sogni, le speranze e le fatiche dell’uomo contemporaneo – non solo dei cattolici!; dall’altro, un approccio ai problemi “a partire dallo sguardo sulla realtà” – quindi ricerca, confronto con tutti i saperi delle scienze umane, e rispetto per la dignità delle persone, anche quando fanno scelte diverse. In questa prospettiva – e in estrema sintesi – è stato facile, per esempio, raccontare il grande lavoro della Chiesa per accompagnare i giovani al sacramento del matrimonio: anche se il dibattito in ambito pastorale su modelli, strumenti e contenuti era molto intenso, la Chiesa è stata per lunghissimi anni l’unico attore sociale che accompagnava i giovani a questo passo. Invece l’ampio, infuocato e perdurante dibattito degli ultimi anni su gender, identità e orientamento sessuale (e sulla connessa identità della famiglia) e genitorialità è stato – ed è tuttora – un campo complesso anche in ambito ecclesiale (oltre che nel dibattito civile). La vera sofferenza – per quel che mi riguarda – è vedere la difficoltà di ricondurre ad unità tutti i diversi possibili orientamenti, anche all’interno della Chiesa. Del resto, in un “cambiamento d’epoca” queste fatiche sono da mettere in conto.

Nel 2050, secondo le proiezioni Istat, le persone single saranno più numerose dei nuclei con figli. C’è la possibilità di invertire il declino o dobbiamo rassegnarci a una situazione che non abbiamo la capacità di affrontare?

A una domanda del genere si rischia di rispondere scegliendo tra ottimisti e pessimisti, oppure pensando più al “futuro desiderabile” che al “futuro possibile”. Realisticamente penso che il futuro demografico (nel nostro Paese, ma non solo) sarà difficilmente modificabile, e che le proiezioni Istat siano realistiche. Questo non significa che non si debba lavorare per contrastare questa prospettiva: si può e si deve continuare a chiedere più politiche a sostegno delle famiglie con figli e per i giovani, e insieme promuovere orizzonti valoriali diversi, costruire comunità solidali, attente ai più deboli, capaci di custodire il futuro (anche ambientale). Mi aspetto comunque una società sempre più plurale, dove ci saranno fianco a fianco giovani che costruiranno famiglie numerose e giovani che sceglieranno di non diventare genitori per tutta la loro vita. Quanti saranno gli uni e gli altri, dipenderà anche dalle politiche – ma non solo.

Nel quadro familiare del futuro, che s’annuncia sempre più aggrovigliato e di difficile lettura, quale sarà la funzione del Cisf?

Mi piacerebbe che il Cisf confermasse la sua vocazione a stare “nella terra di mezzo”: a facilitare il dialogo tra Chiesa e società, a promuovere la collaborazione tra i diversi saperi, ad aprire il nostro Paese alle esperienze internazionali, ma soprattutto a favorire l’uscita dalla contrapposizione ideologica, attraverso l’attenzione ai dati di realtà: ascoltare le famiglie, prima di fare un discorso su cosa “deve essere” una famiglia; ascoltare gli operatori di contatto con le famiglie, prima di dire come devono essere i servizi a favore della famiglia; ascoltare le comunità ecclesiali, prima di dire come dovrebbe essere “la buona famiglia cristiana”. Il tutto con un’attenzione privilegiata agli operatori dei mass media e ai decisori politici, perché sono convinto che proprio questi due mondi hanno davvero bisogno di un “bagno di realtà”, e di decisioni e riflessioni “evidence based” (conoscere per decidere), basate sull’ascolto della realtà, sui dati di ricerca, prima che su un discorso sulla realtà.

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