In Italia ci si sposa sempre di meno. I motivi sono molteplici e noti: dalla diminuzione della popolazione, alla crisi economica, alla scarsa fiducia nel futuro. Ci si sposa di meno, ma quando una coppia decide di vivere insieme, si preferisce sempre più spesso la convivenza alla celebrazione del matrimonio. Le coppie vivono insieme, spesso si impegnano economicamente nell’acquisto di un immobile, condividono le spese, i sogni. Senza infatti sposarsi, né civilmente nè in chiesa.
Di fronte a questa realtà anche la Chiesa si interroga e cerca modalità per accompagnare le coppie conviventi, anche nel momento in cui questo legame si rompe.
Può accadere infatti che la convivenza si sfilacci, che si spezzi, con uno strascico di sofferenze e una necessità di riassestamento che porta con sé difficoltà, incomprensioni. Chi si mette al fianco di queste donne e di questi uomini che vivono il dolore di un rapporto d’amore e di convivenza che si interrompe? A chi un giovane si può rivolgere per condividere il proprio fardello di problemi e di dolore? Ci sono persone che dopo la fine di una convivenza devono tornare a casa dei genitori, ci sono persone che non hanno una prospettiva. Può pesare un giudizio, il sentirsi comunque al di fuori di una comunità perché reduci da una relazione non sancita dal matrimonio. E anche perché mostrare la propria sofferenza, la propria delusione, la propria debolezza, è difficile.
Dopo l’esortazione apostolica Amoris Laetitia, in cui si spiega che anche le relazioni al di fuori del sacramento del matrimonio non solo hanno semi di bene da far germogliare ma hanno al loro interno, in misura diversa, quelli che il Concilio Vaticano II ha definito semina Verbi (il germe dell’amore di Dio), l’attenzione verso le coppie conviventi si è fatta più attenta e partecipe anche nei territori. Esistono cammini in cui confrontarsi, anche con coppie di sposi, nei quali mettere al centro anche le proprie fragilità.
“La prima cosa è comunicare che esiste la possibilità di essere accolti e ascoltati – afferma con determinazione Barbara Baffetti che, con il marito Stefano Rossi, è tra le coppie fondatrici assieme a don Carlo Rocchetta, della Casa della Tenerezza di Perugia, oltre ad avere un incarico di collaborazione del direttore dell’Ufficio nazionale Cei per pastorale della famiglia, padre Marco Vianelli –. Da noi, alla Casa della Tenerezza, giungono coppie di conviventi che, di fronte alla crisi, visto che hanno investito seriamente in quel legame, vogliono tentare di recuperare. Il volto accogliente della Chiesa deve essere però sostenuto dalla competenza, altrimenti si rischia di fare dei danni. Non è inusuale che un accompagnamento di questo tipo, che faccia sentire accolti, che partendo dall’aiuto sulla dinamica di relazione e dal fatto che si faccia cogliere che c’è una comunità che si preoccupa di loro, anche se non hanno celebrato il sacramento, il recupero della coppia apre a una posizione diversa rispetto al matrimonio”.
La comunità cristiana dinanzi a queste persone che si trovano in difficoltà deve mostrare quindi un’attenzione particolare, deve far scorgere nelle trame dei rapporti, la cura di Dio per ciascuno. “Mi preoccupo di voi, qualunque sia la vostra situazione – prosegue Barbara Baffetti -: questo dobbiamo trasmettere. Non è facile chiedere aiuto. A volte purtroppo c’è ancora lo scandalo della fragilità: si ha vergogna della fine del legame, soprattutto tra le persone sposate. Forse perché i conviventi, in fieri, contemplano questa fragilità. In generale uno fa fatica a consegnare la propria fragilità alla propria comunità, soprattutto se di dimensioni ridotte”.
Forse questo passaggio non è semplice, perché se da un lato è innegabile che sia difficile chiedere aiuto, domandare ascolto e accoglienza, dall’altro le comunità faticano a intercettare le diverse sfaccettature di sofferenza che calano nelle vite delle persone. “L’argomento è complesso – riflette don Cristiano Mauri, sacerdote ambrosiano, diplomato come coach professionista, counsellor e mediatore familiare -. La vera questione riguarda le comunità cristiane che non riescono a intercettare una grande quantità di sofferenze, di diverso genere. Le comunità faticano ad arrivare alle sofferenze e, dall’altro canto, meno gente chiede aiuto. Forse le persone non ci ritengono più interlocutori adeguati cui domandare un aiuto. Le coppie conviventi che si separano provano una grande sofferenza; magari si sono sentite dire direttamente, oppure hanno colto un messaggio indiretto, sul fatto che il loro stile di vita non era opportuno. Perché quindi domandare un aiuto alla comunità cristiana?”.
Si tratta perciò di essere in grado di far comprendere a queste persone che la loro sofferenza “sta a cuore” alla comunità. “Provare a trattare le coppie non alla pari per il tipo di percorso, ma sulla dignità della persona – specifica don Mauri -, è un passo importante. Pensare di fare una proposta a chi fa questa scelta della convivenza, per dir loro che si stanno preparando a un percorso importante, in cui ci saranno anche delle difficoltà, potrebbe essere interessante. Sarebbe bello offrire degli strumenti per affrontare questo cammino e mettere le coppie nelle condizioni di trovare delle risorse, offrendo un riferimento. Per far comprendere che, se la coppia convivente dovesse trovare delle difficoltà, potrebbe rivolgersi a te, alla comunità. Se stai soffrendo, se vi state facendo del male, se avete problemi, ci siamo: la tua sofferenza mi sta a cuore”.
“Questo è il segnale che si potrebbe dare: tu, come persona, hai la stessa dignità di chi si è sposato in chiesa. Anche se non fa la scelta del sacramento, una persona che decide di compiere una scelta che ha una prospettiva, sta facendo una scelta di responsabilità. Dobbiamo prendere sul serio queste persone che fanno una scelta di peso, che potrà portare delle difficoltà, ma che farà anche sperimentare tante cose belle. Mi piacerebbe, come Chiesa – osserva ancora il sacerdote - che si offrissero dei contesti in cui aiutare ad approfondire questa scelta, per goderla appieno, per aiutare eventualmente nelle difficoltà. Perché una persona si senta accolta, non giudicata”.