Una bambina vaga tra liquami e rifiuti nello slum di Katwe, a Kampala: molti bimbi vengono abbandonati nella capitale ugandese, dove sono preda di organizzazioni criminali - Alfieri
Sono i figli della povertà e della fame, di chi non ha potuto o saputo dar loro un'alternativa perché nella disperazione un'alternativa pensava di non avere. Bambini di strada. Abbandonati, perduti, la loro infanzia in frantumi per le strade africane. Bambini che ora provano a ripartire, a riannodare il filo del loro percorso di vita grazie a chi trova un'offesa alla dignità umana la possibilità che vengano lasciati indietro.
Kobulin, piccolo centro in mezzo alla savana della Karamoja, la regione più povera di un'Uganda che è già quasi Kenya, un milione di abitanti, metà dei quali in preda alla malnutrizione e al 70 per cento senza un’istruzione di base. Dalla capitale Kampala ci si arriva dopo 500 chilometri e dieci ore di viaggio, attraversando villaggi e terre ancestrali, agglomerati di capanne di fango, uomini e donne che si lavano in pozze all'aperto o nei pochi corsi d'acqua, una vegetazione che diventa sempre più arida e secca. Qui il cambiamento climatico detta già le sue condizioni: piove sempre meno e l'unico raccolto annuale, così come la sopravvivenza delle mandrie e dell'uomo, è sempre più a rischio. È qui che 50 anni fa arrivò don Vittorio Pastori, “Vittorione”, dando inizio con i suoi 147 viaggi umanitari alla sua creatura, Africa Mission Cooperazione e Sviluppo, un'organizzazione che dall'accesso all'acqua al sostegno al diritto all'infanzia è diventata un punto di riferimento per i karimojong, antico popolo guerriero padrone di queste terre. Sostegno ai bambini abbandonati, ma anche a madri sieropositive, con interventi mirati per i villaggi che comprendono la diffusione di nuove tecniche agricole con cui adattarsi a siccità e inondazioni.
Giovani madri frequentano un corso di sartoria nel centro di formazione di Kobulin - Alfieri
Agan, maglietta e pantaloncini azzurri, ha due anni appena. Al momento, non ha nessuno al mondo. O meglio, se c'è qualcuno, bisogna ancora trovarlo. Lo ha individuato, anzi letteralmente raccattato, la polizia ugandese per le strade di Kampala insieme ad altri 167 bambini. Lo scorso 25 gennaio Agan è stato portato qui, a Kobulin. Quando lo incontriamo, di lui, a parte nome ed età, non si sa nulla. Né chi sia la madre né da quale parte della Karamoja provenga. Con tutta probabilità, ci spiega Janet, responsabile del Centro di recupero sostenuto da Africa Mission in collaborazione con le autorità ministeriali ugandesi, è stato un genitore o un parente a portarlo nella capitale e ad abbandonarlo lì. « La povertà costringe spesso tante madri sole e con molti figli a questo gesto. Nella capitale i bimbi sono costretti a mendicare, preda di organizzazioni criminali, vittime di abusi, ma anche di traffico d'organi, considerando che molte nascite non sono registrate e che, quindi, è come se molti minori, di fatto, non esistessero». Bambini scartati e violati, cui non viene concessa alcuna dignità.
Periodicamente, i raid della polizia ne individuano a decine e li riportano in Karamoja. Dove però, spesso, ad attenderli non c'è nessuno. I bambini vengono indirizzati in centri come quello di Kobulin, dove ha inizio, dopo uno screening medico, il faticoso percorso di reinserimento in famiglia e nelle comunità di appartenenza, coinvolgendo i leader del distretto. «Oltre che con i bambini, che vengono anche iscritti a scuola, lavoriamo naturalmente molto con le madri, alcune giovanissime, responsabilizzandole maggiormente ed aiutandole», sottolinea Janet.
All'interno del Centro, Africa mission organizza infatti brevi corsi di formazione per donne della zona, quasi tutte ragazze-madri. Ne incontriamo sei, che stanno per finire un corso di cucina, ultimato il quale otterranno anche un certificato professionale valido in sei Stati africani. Non c'è solo da imparare le varie ricette, ma anche capire come trasformare quanto appreso in una piccola attività: l’obiettivo è di avviare una piccola attività che dia a queste giovani un reddito stabile, in modo da far uscire le loro famiglie da una situazione di insicurezza alimentare. «Il metodo è “earn as you learn”, guadagna mentre impari: tutto ciò che cucinano durante il corso, infatti, viene venduto per avere subito un piccolo guadagno – spiega Piergiorgio Lappo, responsabile di Africa Mission in Uganda –. Più volte, confrontandomi con le autorità, ho sottolineato che l'unico modo di evita-re che i bambini vengano abbandonati a Kampala è migliorare le condizioni di vita qui, in Karamoja: è quanto stiamo cercando di fare».
Christine Napeyok prende l’acqua dal pozzo realizzato vicino casa sua da Africa Mission - Alfieri
Ci spostiamo di qualche chilometro, raggiungendo la zona di Katanga. Qui incontriamo suor Susan Anyango, delle Sorelle del Sacro Cuore, e un gruppo di donne sieropositive che, grazie alla collaborazione tra l'organizzazione Home Based Care e Africa Mission, hanno potuto migliorare la loro situazione. Molte sono vedove, altre sono state abbandonate dai mariti. Oltre al sostegno nell'assunzione dei farmaci antiretrovirali, le donne vengono aiutate ad avere un migliore apporto nutrizionale per sé e per le loro famiglie. In alcuni campi imparano a migliorare la gestione dell'acqua disponibile con l’irrigazione a goccia: non piove da novembre per cui le risorse, nonostante i pozzi, sono limitate. Lo stoccaggio dei prodotti della terra come il sorgo in quatto silos consente inoltre di differenziare i tempi di vendita, per massimizzare gli introiti e far fronte più a lungo alle necessità. «Inoltre – spiega suor Susan – è stato organizzato anche un gruppo di risparmio: ognuna delle donne coinvolte può depositarvi qualcosa e, quando ne ha ne-cessità, chiedere un prestito, con tassi del 10% rispetto al 24% delle banche, una sorta di microcredito di base che ha mostrato di funzionare».
Christine Alewo ha 54 anni e undici figli: è una delle donne sostenute dagli interventi. «Ho imparato molto su come ottenere risultati maggiori dalla terra – racconta –. Piantiamo verdure, ortaggi, carote, cipolle, rivendiamo i prodotti al mercato o anche alle scuole. Ora posso sfamare la mia famiglia e far studiare i miei figli, oltre a stare meglio anch’io fisicamente». «Prendo gli antiretrovirali da 20 anni: quando sono qui con le altre mamme riesco a dimenticare anche i miei problemi – interviene un’altra donna, Apollot – Siamo grate di essere state salvate: senza questi interventi saremmo tutte già morte».
Tra le ultime attività introdotte da Africa Mission c'è anche l'apicoltura grazie all'acquisto di 35 alveari distribuiti alla comunità. Il primo miele è già stato raccolto ed è molto puro: un contenitore di 10 chili potrà essere venduto a 160mila scellini, l'equivalente di 40 euro, un'altra preziosa fonte di reddito. Christine Napeyok ha 40 anni e 5 figli, anche lei è sieropositiva: davanti casa sua Africa Mission ha perforato uno degli oltre mille pozzi realizzati in Uganda grazie alla donazione di un sacerdote italiano, don Sauro Profiri, pozzo che ora serve la comunità circostante: «Ancora fino a una quindicina d’anni fa – racconta – i sieropositivi venivano stigmatizzati, ma a poco a poco la realtà è cambiata. I miei bambini non hanno l'Hiv e la mia sfida oggi è mandarli ogni giorno a scuola. Avere a disposizione l'acqua mi consente di risparmiare 4-7mila scellini al giorno (1-1,5 euro), che prima dovevo pagare per il trasporto: mi sento fortunata».
Christine Alewo ha 54 anni e undici figli: è una delle donne sostenute dagli interventi di Africa Mission - Alfieri
Ci spostiamo poco lontano, dove un'altra realtà viene incontro alle necessità di comunità così fragili. Si tratta di un centro educativo fondato anni fa dalla Cooperazione tedesca e poi consegnato al governo ugandese. Africa Mission ne ha ottenuto la gestione cinque anni fa e da allora organizza interventi di formazione agricola e veterinaria. Grazie a un progetto finanziato dalla Conferenza episcopale italiana, a breve inizierà un nuovo corso per 50 “agricoltori modello” e 45 gruppi di giovani, con l’obiettivo che le conoscenze vengano poi trasmesse anche agli altri membri della comunità. Il passo successivo sarà di fare formazione direttamente per gli interi villaggi.
«Il punto di partenza è sempre quello della conservazione del territorio – sottolinea Carlo Ruspantini, direttore generale di Africa Mission –. Nella formazione è necessario iniziare anche dalle cose più basilari, spiegando ad esempio che è preferibile non tagliare gli alberi ma potarli, in modo che nella stagione delle piogge le inondazioni non devastino il territorio. Inoltre si punta sul miglioramento dell'irrigazione e sulle conoscenze a livello nutrizionale, come la variazione della dieta con l'introduzione di alcune verdure. Spieghiamo come pestare gli arachidi per ottenerne l'olio, invece che spendere denaro per il suo acquisto, l'introduzione dei piselli che richiedono poca acqua e quella della cassava, che sfama molto e non impoverisce il terreno. E poi la selezione delle sementi e la diffusione di conoscenze sugli antiparassitari naturali che proteggano le colture».
Bastano piccoli ma preziosi interventi per risollevare la speranza in una terra estrema come la Karamoja, una periferia del mondo come quelle amate da Papa Francesco e messe al centro dal Pontefice nel suo recente viaggio in Africa. «In terre come queste si coglie il senso dell’ecologia integrale proposta da papa Francesco – sottolinea monsignor Adriano Cevolotto, vescovo di Piacenza-Bobbio, in Karamoja per osservare di persona i progressi degli interventi di sviluppo avviati da Africa Mission –. In fondo non è possibile affrontare certe questioni umane e sociali senza tenere conto di tutto il contesto ambientale ed economico, comprese le sue contraddizioni. Le stesse organizzazioni internazionali o ritmano il passo con chi opera qui da tempo, conoscendo questa realtà, oppure il rischio è di limitarsi a interventi “spot” che non offrono prospettive di crescita reali».
Nulla può essere dato per scontato in una regione come la Karamoja che da sempre soffre di un certo abbandono. Popolo di mandriani, i karimojong sono oggi investiti in pieno da una modernità che li rende ancora più fragili. Il bestiame si riduce, con forti impatti anche a livello sociale, i terreni si inaridiscono, le strutture familiari si sfaldano. C'è un'enorme bisogno di un lavoro dal basso, a stretto contatto quotidiano con comunità a rischio. Perché anche in quest'angolo d'Africa rinasca, forte e senza crepe, una nuova, duratura speranza.