Le persone spesso mentono quando vengono interrogate sulle proprie preferenze e i propri gusti. E ciò avviene in base al contesto in cui ci si trova. Vi piace più Annalisa o Rossini? Mantegna o Banksy? Una Cassœula secondo la tradizione lombarda o un hamburger di McDonald’s? Se vi presentate alla futura suocera un po’ snob meglio dare in ordine le risposte 2, 1, 1. Ma tra giovani amici intenzionati a rilassarsi meglio scegliere l’opposto per non essere lasciati a casa. E se c’è un sondaggio via Internet? Le risposte “appropriate” sono dettate dal modo in cui desideriamo apparire agli occhi degli altri. Ovvio che poi si va al concerto o al ristorante più gradito. È un fenomeno comune e moralmente non molto significativo. Ma enormemente rilevante per chi si occupa di soddisfare preferenze e gusti del pubblico. Meglio sapere prima che cosa frulla nella testa delle persone che vedersi l’intera produzione invenduta sugli scaffali. Meglio conoscere le inclinazioni del pubblico che avere la sala vuota dopo avere scoperto che la programmazione era fuori bersaglio.
Come ormai è noto, sono oggi disponibili neurotecnologie in grado di monitorare l’attività cerebrale delle persone e da essa trarre informazioni. Si tratta di strumenti sviluppati e utilizzati soprattutto in ambito clinico che possono poi trovare impiego in diversi contesti, commerciali e legati anche alla propaganda politica. Il neuromarketing è precisamente l’applicazione delle conoscenze e delle pratiche neuroscientifiche alle strategie di presentazione e di vendita, con lo scopo di analizzare i processi inconsci che avvengono nella mente del consumatore e che influenzano le decisioni di acquisto o il coinvolgimento emotivo con un marchio.
L’esempio di uno studio classico dà l’idea della specificità del neuromarketing. Qual è il miglior predittore del comportamento d’acquisto: la ricerca qualitativa (interviste) o le scansioni fatte con la risonanza magnetica funzionale? Prendiamo 18 donne tedesche di età compresa tra i 23 e i 56 anni, autodefinitesi acquirenti settimanali di cioccolato. Mostriamo loro l’immagine di un prodotto dolciario e sei comunicazioni pubblicitarie correlate, compreso un elemento di controllo (uno spazzolino). Mentre le volontarie sono dentro l’apparecchio per la fMRI, il prodotto appare sullo schermo per 2 secondi, seguito per 3 secondi dalla promozione commerciale, quindi di nuovo il prodotto per 2 secondi. Nel frattempo, i ricercatori utilizzano la macchina per valutare l’attivazione di diverse aree cerebrali.
In seguito, alle partecipanti è stato chiesto di ordinare le comunicazioni pubblicitarie in base al loro gradimento, mentre gli autori della ricerca hanno creato diverse previsioni di vendita, basate sulle preferenze dichiarate o sull’attività cerebrale durante la procedura in laboratorio. Alcuni supermercati in Germania hanno esposto ciascuna comunicazione pubblicitaria per una settimana, calcolando le vendite effettive. Il miglior predittore di acquisto è stato il profilo di attivazione cerebrale registrato mentre le 18 donne guardavano le promozioni commerciali; le scelte esplicite delle partecipanti non si sono invece rivelate una buona guida.
In altre parole, le volontarie apprezzavano una promozione pubblicitaria (lo capiamo dal modo in cui il cervello si attiva davanti alle immagini) e dicevano di preferirne un’altra. Il test di vendita (posto che il campione sia rappresentativo dell’intera popolazione) ci segnala come i comportamenti di acquisto si allineino poi ai “veri” gusti. In questo caso, sembra che le persone non mentano per compiacere l’interlocutore, ma sopprimano e tradiscano inconsciamente quella che sarebbe la loro prima risposta. L’interpretazione di tale aspetto rimane complessa e non pienamente risolta. Il punto però è la ricaduta pratica che può essere particolarmente significativa.
Il neuromarketing predittivo – come ci informa un utile volume di Simona Ruffino (Neuromarketing etico. Ascoltare le persone per costruire brand efficaci, Hoepli, pp. 272, euro 24,90) – «è quello che mira a offrire un quadro scientifico dettagliato dei processi decisionali e dei modelli di comportamento che caratterizzano l’essere umano». Esso, pertanto, «elabora metodologie sulla base dei risultati di esperimenti e ricerche neuroscientifiche e affianca le aziende nell’applicazione di questi metodi alle proprie strategie di marketing e comunicazione».
Diversamente, il neuromarketing applicato «fa riferimento all’utilizzo di specifiche strumentazioni (risonanza magnetica funzionale, elettroencefalografia, rilevazione della frequenza cardiaca, eye-tracking) con lo scopo di testare l’efficacia dei contenuti creativi (spot, video, siti web ecc.) attraverso la misurazione delle risposte fisiologiche allo stimolo». La gamma degli strumenti allarga anche la definizione originaria. Alcuni sono specifici per monitorare l’attività cerebrale, mentre la frequenza cardiaca o la conduttanza cutanea (sudore delle mani) sono orientate a valutare l’aspetto emotivo, che si riflette nei parametri fisiologici citati. L’eye-tracking, che si presta a tanti usi, serve invece a rilevare dove cade lo sguardo delle persone, aspetto fondamentale per comprendere quali parti o dettagli di una pagina Internet o di un prodotto di consumo sono osservati con più attenzione e quindi decisive per la scelta d’acquisto.
Il libro di Ruffino (brand strategist e consulente aziendale) è un manuale ricco di informazioni aggiornate e di storie aziendali (corredato di immagini, schede, glossari e testimonianze di imprenditori) che mostra i modi in cui il neuromarketing può essere impiegato sotto il profilo commerciale seppure sempre con un approccio “etico”. Nell’intenzione dell’autrice, ciò significa centrato sulle persone e i loro bisogni. Non vuole dire che le aziende diventino società benefiche incuranti del profitto, piuttosto che, grazie alle neuroscienze, sono in grado di comprendere meglio le esigenze dei consumatori, senza ingannarli o sfruttarli.
Compito complesso e forse venato di un eccesso di ottimismo. Ma certamente il neuromarketing ha in sé un doppio potenziale, manipolatorio e liberatorio insieme. Sul primo versante ci si può chiedere in che senso il neuromarketing è più pervasivo delle raffinate strategie di promozione commerciale basate sullo studio della psicologia umana. Esiste ovviamente un tema di privacy rispetto alle informazioni acquisite dai volontari reclutati negli studi promossi dalle aziende (si scruta nel loro cervello, dopo tutto). E c’è un tema di induzione di consumi che possono essere disfunzionali, in quanto il neuromarketing nel suo complesso risulta una strategia molto più potente delle tecniche finora usate. Si pensi ai bambini. Quali conseguenze si avrebbero se il neuromarketing venisse utilizzato per stimolare il consumo di cibo spazzatura, che è una delle principali cause dell’obesità e dello scarso sviluppo cognitivo in tutto il mondo? Inevitabile pensare a qualche forma di (auto)regolamentazione.
Eppure, il neuromarketing può servire anche a capire le esigenze, i desideri e le valutazioni reali delle persone, non mediate da una cornice sociale che li può reprimere. Bisogna tuttavia fare attenzione al boomerang della corrività. Ascoltare direttamente il cervello per avere le risposte più immediate e istintive può favorire gusti e preferenze “bassi”, che ci vengono dalla nostra storia evolutiva, penalizzando forme espressive “alte”, frutto di un lungo percorso culturale di civilizzazione. Più semplicemente, il neuromarketing può aiutare a correggere la percezione errata del prodotto da parte dell’azienda rispetto a quella che ha il pubblico e viceversa.
Ancora, comprendere i meccanismi di attenzione e di reazioni inconsce può diventare parte di strategie per il miglioramento di comportamenti personali e sociali, creando una sorta di nudging neuroscientifico, ovvero quelle procedure che indirizzano, senza costringerlo, il cittadino verso scelte più salutari o virtuose a suo favore, come smettere di fumare, fare prevenzione sanitaria o accendere un programma pensionistico integrativo. Ma anche in questo caso bisogna fare attenzione a non introdurre nuove forme di paternalismo, ovvero di controllo esterno sulle opzioni di vita delle persone in violazione della loro autonomia. Qui, da ultimo, si inserisce l’uso del neuromarketing in ambito politico. E le implicazioni appaiono molto più problematiche. Le prime sperimentazioni, una quindicina di anni fa, suscitarono polemiche e allarme nella comunità scientifica. Ad esempio, se si scopre che la reazione, positiva o negativa, alla presentazione per frazioni di secondo di volti sconosciuti è un ottimo predittore del voto per quelle persone, la selezione del personale politico potrebbe spostarsi dalle competenze personali alla capacità di attrazione dei visi. Oggi tutto si muove sottotraccia perché le opinioni pubbliche sono diffidenti rispetto a questi strumenti nell’ambito dei processi elettorali, che dovrebbero essere caratterizzati da trasparenza e assenza di condizionamenti occulti. Proprio per tali motivi la necessità di sorveglianza e di norme chiare è tanto più urgente quanto più il ricorso a queste tecniche è fatto in maniera riservata e opaca.