Gli spazi di WeWork a New York nel quartiere Chelsea (foto WeWork)
Sono tempi duri per i cosiddetti “unicorni”, le startup tecnologiche non quotate che hanno una valutazione di oltre un miliardo di dollari: gli investitori sembrano avere esaurito la pazienza nei confronti dei loro bilanci costantemente in perdita. Per una startup è normale perdere denaro: spesso il modello di business di una nuova impresa prevede la presenza di un’idea “geniale” alla base di tutto, quindi massicci investimenti per conquistare clienti e poi, quando si è raggiunta una “massa” sufficiente, arrivano i profitti. È andata così con colossi come Facebook e Amazon, ex startup che hanno insegnato agli investitori ad essere pazienti. A volte però i profitti non arrivano mai.
È questo il rischio che gli investitori hanno visto in WeWork, l’affascinante creatura di Adam Neumann. WeWork è una startup che fa una cosa antica in un modo nuovo. Compra uffici, li rinnova secondo i più moderni principi dell’arredamento degli spazi lavorativi, quindi li affitta “a pezzi”, creando dei centri di lavoro condiviso: nei suoi spazi si possono affittare uffici per decine di persone ma anche singole scrivanie e tra i “membri” della comunità di WeWork si crea un clima di condivisione di idee ed esperienze che aumenta significativamente la produttività. Tanto che anche grandissime aziende, a cui non mancano certo gli uffici, mandano dei gruppi di dipendenti a lavorare nei centri di WeWork per inserirli nel “flusso creativo” che si genera in quegli spazi.
Funziona, e infatti WeWork cresce molto. È partita dieci anni fa con due uffici dove lavoravano 450 persone e oggi ha 528 uffici in 111 città con 527mila “membri” che hanno trovato in quegli spazi l’ambiente giusto per lavorare bene. Ancora assente in Italia, l’azienda di Neumann ha però in cantiere cinque aperture entro fine anno nelle zone strategiche di Milano.
Dal punto di vista economico, però, WeWork cresce molto ma perde moltissimo. Tra il 2016 e il 2018 il suo fatturato è passato da 436 milioni a 1,8 miliardi di dollari e nella prima metà del 2019 ha già incassato 1,5 miliardi. Ma negli ultimi tre anni ha perso complessivamente 2,9 miliardi (più un rosso di altri 690 milioni nei primi sei mesi di quest’anno). È con questi numeri che l’azienda intendeva presentarsi a Wall Street avviando lunedì prossimo gli incontri ufficiali con gli investitori.
Neumann partiva dall’idea di raccogliere qualche miliardo di dollari vendendo una quota di minoranza: il fondo innovativo Vision della banca giapponese Softbank, che gestisce 100 miliardi di dollari, tra il 2017 e il 2018 ha investito 10,65 miliardi su WeWork. Nell’ultima operazione, dello scorso novembre, le ha dato una valutazione di 47 miliardi di dollari. Quando però le banche che dovevano gestire il collocamento in Borsa hanno iniziato a incontrare i potenziali investitori le cifre sono state molto ridimensionate. La possibile valutazione totale è precipitata a 10 miliardi di dollari.
Un piano di azioni “privilegiate” che assegna alle azioni del fondatore 10 volte i diritti di voto rispetto agli azionisti “normali” ha contribuito a dissuadere gli eventuali investitori (anche perché Neumann ha già “tirato fuori” 700 milioni di dollari dalla sua impresa). Lunedì WeWork ha annunciato il rinvio del debutto a Wall Street a tempi migliori.
Chissà se arriveranno mai. Quest’anno le Ipo di Uber e Lyft, altre ex startup dalle valutazioni multimiliardarie ma incapaci di generare utili, hanno messo alla prova anche gli azionisti più ottimisti. La prima è quotata da maggio e la seconda da marzo, dal debutto hanno perso rispettivamente il 19% e il 40%. Assieme hanno bruciato circa 25 miliardi di capitalizzazione. Anche le risorse dei fondi più ricchi non sono infinite, così come la loro pazienza.