«Dovremmo cogliere l'occasione di questa "sperimentazione forzata" dello smart working e farne l'oggetto di un grande lavoro collettivo di accompagnamento, monitoraggio e valutazione, per apprendere, cambiare e crescere insieme». Lo dichiara Pier Giovanni Bresciani, presidente della Società italiana di psicologia del
lavoro e dell'organizzazione (Siplo), che lancia un'allerta su sei criticità da affrontare per la diffusione del lavoro agile in Italia: «Abusi non tutelati da parte dell'azienda; comportamenti opportunistici non controllabili da parte del lavoratori; il diffondersi di una rappresentazione dello smart working soltanto come telelavoro, anziché come modalità organizzativa alternativa e complementare; la delegittimazione dell'insieme delle tutele - continua lo studioso - che in questi anni hanno faticosamente accompagnato l'avvio delle migliori pratiche anche nel nostro Paese; la destrutturazione dei rapporti sociali; l'aumento dello stress per i lavoratori coinvolti in una situazione sociale già di per sè particolarmente ansiogena per
tanti e comprensibili motivi».
Per Bresciani ci sono anche alcuni vantaggi potenziali da non sottovalutare: «La "messa a tema" su larga scala della questione smart working, e quindi dello sviluppo di modelli organizzativi più evoluti e più efficaci nel nostro tessuto produttivo e nella Pubblica amministrazione; l'apertura di un grande cantiere di sperimentazione nel nostro Paese sulla nuova modalità di organizzazione del lavoro; il progressivo superamento delle diffidenze e delle resistenze - prosegue Bresciani - che buona parte dei lavoratori e delle imprese manifestano nei confronti dello smart working; la effettiva, almeno parziale, diminuzione
dell'inquinamento da mobilità e dei rischi di contatto e quindi di trasmissione del virus. Lo smart working è un modello di organizzazione del lavoro delle imprese che richiede e implica un modo di intendere il lavoro, una "cultura" legata a valori come la flessibilità, la responsabilità e la gestione per obiettivi e risultati».
Il professore di Psicologia del lavoro dell'Università di Urbino rivolge allora un appello alle parti sociali, alle
istituzioni, al sistema formativo e alle agenzie di ricerca che, in questo momento, «hanno un grande ruolo e una grande responsabilità in merito. Come spesso accade - continua Bresciani- le resistenze rispetto a un certo tipo di comportamento (sociale, organizzativo, individuale) faticano a essere superate fino a che non avviene un evento particolarmente critico, oppure fino a che non interviene "un soggetto terzo" a modificare la struttura tradizionale dei rapporti. In questo caso è il Coronavirus (malauguratamente) a svolgere la funzione di "terzieta" a spingere all'azione i diversi soggetti che hanno finora cercato di costruire un quadro di garanzie che potesse tutelare allo stesso tempo i lavoratori e le aziende. A fronte di questa minaccia incombente si è creata una necessità/disponibilità di attivare da subito forme di flessibilizzazione delle prestazioni di lavoro, ponendo per ora in secondo piano le questioni attinenti la procedura (a volte anche complessa) di stipula dell'accordo individuale che dovrebbe accompagnare ogni esperienza di questo tipo».
Lo dichiara Pier Giovanni Bresciani, presidente della Società italiana di psicologia del
lavoro e dell'organizzazione
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