giovedì 3 ottobre 2024
Nel primo giorno del Festival nazionale dell’economia civile si ragiona sul “Manifesto” presentato lo scorso giugno. Occorre rivedere i paradigmi della scienza economica
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“L’ora di partecipare” è il titolo dell’edizione 2024 del Festival nazionale dell’economia civile, la sesta, che si è aperta giovedì a Firenze e si concluderà domenica. Al centro dell’evento – organizzato da Federcasse, Confcooperative, Next e Scuola di economia civile – ci sono i temi della partecipazione, del civismo e della cittadinanza attiva, elementi centrali perché fiorisca la vita democratica dei nostri Paesi.

«Parlare del rinascimento di una scienza significa che qualcosa non è andato poi così bene». Giovanni Ferri, economista della Lumsa, la butta sull’ironia. Giunto alla sesta edizione, il Festival nazionale dell’economia civile lancia un guanto di sfida all’economia “ufficiale” o “ortodossa”. Lo fa rilanciando il Manifesto per la nuova economia civile e sociale presentato in estate e sottoscritto da oltre trecento economisti.

Un atto politico? No. Una sfida scientifica. Lo spiega bene Alessio Biondo, docente di Politica Economica dell’Università di Catania: «L’economia si è allontanata molto da Smith e Stuart Mill – dice –, a causa di una astrazione continua, una semplificazione oltre il necessario che avrebbe fatto storcere il naso ad Einstein, usando termini che derivano dal lessico corrente e impoverendosi, perché l’astrazione consecutiva sottrae all’analisi economica degli elementi importanti, anche metodologici. Oggi va fatta un’operazione di rivendicazione: l’economia non può significare il “soldo”; l’uomo economico che viene raccontato è un uomo rarefatto, che ha deciso di abbandonare la sua umanità».

Biondo è uno dei relatori del panel che ha discusso ieri, in Università, delle ricadute concrete del manifesto che invita la scienza economica a rivedere i propri paradigmi: l’homo oecomomicus, appunto, che massimizza l’utile, l’impresa che fa lo stesso col profitto, il Pil come unico indicatore di crescita, il dualismo innaturale tra stato e individuo e la irresponsabilità dell’economista rispetto ai processi sociali. Cinque, come i petali di un geranio, ha sottolineato Ferri ricordando come questi paradigmi esistano solo nella narrazione del mainstream accademico ma siano smentiti dai dati. «L’ipotesi dell’homo oeconomicus è sistematicamente smentita ma la scienza dell’economia vi resta ancorata; le imprese non si limitano a massimizzare il profitto ma si continua a ripeterlo; i parametri per descrivere la crescita sono molteplici ma la contabilità nazionale non li valorizza, fermandosi al Pil; il principio di sussidiarietà è costituzionale ma non trova spazio nel pensiero economico dominante; il ricercatore si è isolato nella specializzazione e sente il bisogno di un approccio interdisciplinare che valorizzi l’utilità sociale della sua ricerca».


«Serve rinascimento perché qualcosa non è andato poi così bene» dice l’economista Ferri
Biondo: «L’uomo economico che viene raccontato ha abbandonato la sua umanità»
Venturini: «Serve sforzo di formazione»

A Novoli, gli economisti hanno ragionato sull’adeguatezza del metodo scientifico. Passando al vaglio il Manifesto per una Nuova Economia, si sono interrogati sull’attualità – o per dirla in modo più forte, sulla “verità” – dei libri di testo che continuano a insegnare un’economia parzialmente diversa dalla realtà e sostanzialmente ostile al filone civile. Sullo sfondo, l’accusa all’establishment scientifico di aver innescato e subito quella deriva riduzionistica che impedisce loro «di cogliere appieno le potenzialità di azioni individuali, collettive e ricette di policy».

Ha aperto la discussione Biondo invitando a «superare gli equivoci per ridare all’economia il ruolo che aveva». Come prova della deriva, ha portato l’evoluzione di istituti e concetti che ha seguito una rotta lessicale e semantica, non scientifica: «Oggi l’economia parla di utilità e consumo come l’uomo della strada e dimenticando di essere la scienza della decisione, svincola il metodo con cui si assume quest’ultima con l’obiettivo. Però, quando si ipotizza che ognuno è portatore di una funzione di utilità e concentra i propri obiettivi solo su se stesso, è impossibile non ipotizzare un soggetto egoista e calcolatore e perdere di vista la complessità dell’essere umano, con tutti i suoi valori. Ciò di cui abbiamo veramente bisogno è di riscoprire il significato delle strutture concettuali che usiamo». Come dire che nell’economia turbocapitalistica si sono persi i fondamentali della disciplina.

Le stesse considerazioni emergono dall’analisi dell’impresa toto-profit e anche qui, secondo il manifesto, «è oggettività e non wishful thinking voler abbattere gli steccati eretti dalla dottrina». Marina Albanese, professore di politica economica all’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, ha negato che la funzione obiettivo dell’impresa possa essere ridotta alla massimizzazione del profitto, portando una lunga serie di esempi. Utilizzare un unico paradigma, ha detto «pone l’economista in svantaggio nel decodificare la realtà economica» e ha invitato i ricercatori a lavorare su forme di produzione diverse per funzioni obiettivo diverse, uscendo dalla nostra comfort zone del dato facilmente misurabile».

Una posizione ribadita da Alessandra Venturini, professore di Politica economica dell’Università di Torino, che si è soffermata sulla necessità di «un grosso sforzo di formazione» in un momento in cui una delle funzioni obiettivo più importanti dell’impresa, il benessere dei lavoratori, sta cambiando rapidamente. Ha concluso l’analisi Marcello Signorelli, docente di Politica Economica dell’Università di Perugia: «Dobbiamo andare oltre il Pil – ha spiegato, toccando uno dei punti centrali del Manifesto –. Per ripensare il ruolo dell’economia servono anche analisi nuove e indicatori di benessere multidimensionali, che catturino aspetti molteplici; oggi sono riconosciuti ma va fatto molto lavoro per capire come dal punto di vista delle politiche si possa spiazzare la centralità degli indicatori basati sul Pil». Una sfida resa ardua per il fatto che la cultura scientifica occidentale, da cui parte questo revisionismo, non è più leader nel contesto globale.

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