Stefania Radoccia, Managing Partner dell’area Tax & Law e Mediterranean Markets and Accounts Leader dell’area Med di EY - Archivio
Negli ultimi giorni l’Ispettorato nazionale del lavoro ha rilasciato i dati sulle dimissioni delle neomamme per l’anno 2019. Numeri che hanno subito sollevato forti preoccupazioni sullo stato del lavoro femminile: 37.611 lavoratrici hanno chiesto la convalida delle dimissioni contro le 13.947 dei colleghi neo-padri. Si tratta di un incremento notevole rispetto alle circa 25mila del 2018. Ma nell’anno 2020 potremmo avere anche un dato peggiore, se si considerano gli interventi nell’ambito dell’emergenza Covid-19, quali la chiusura di scuole e asili e, quindi, la necessità di gestire la prole in ambito strettamente familiare. L’attuale legislazione impone ai neogenitori, con figli fino a tre anni di età, di confermare la propria volontà di risolvere il rapporto di lavoro avanti l’Ispettorato, che ha il compito di verificare l’autenticità della loro scelta. Questa legislazione ha lo scopo di proteggere la parte debole del rapporto di lavoro da eventuali imposizioni datoriali (analoga disciplina si ha per le dimissioni in caso di matrimonio).
Il dato, purtroppo, mostra uno spaccato della società e del mercato del lavoro nazionale e allarma sulla necessità di un urgente e rapido intervento normativo, che possa al più presto far aumentare il tasso di occupazione femminile e non, al contrario, deprimerlo. Ma quali sono le reali motivazioni di un tale incremento? «Una motivazione è senz’altro legata al gap retributivo tra uomo e donna - spiega Stefania Radoccia, Managing Partner dell’area Tax & Law e Mediterranean Markets and Accounts Leader dell’area Med di EY -. Come recentemente emerso da uno studio di Eurostat, l’Italia si posiziona al 17esimo posto su 24 Paesi per Gender Pay Gap nel settore privato, con un differenziale che va dagli otto punti percentuali tra dirigenti uomini e donne per aumentare fino ai dieci punti tra le retribuzioni di un operaio uomo e donna. Questa forte discrasia comporta – anche per un fattore culturale e sociale italiano – che sia la donna a essere indotta a lasciare il lavoro, a favore dell’uomo. La seconda ragione può facilmente essere collegata all’assenza di strumenti efficaci di welfare, che possano assistere il o i genitori nel percorso di cura dell’infanzia (quali agevolazioni più esteso per gli asili, estensione della gratuità, incentivi fiscali per le donne che continuino a investire nella propria attività lavorativa). A tal fine, sarebbe anche opportuna (e quanto mai auspicata) l’implementazione di strumenti flessibili che possano consentire alle neomamme di raggiungere un work-life balance adeguato a soddisfare il desiderio di costruire la famiglia con quello di promuoverla nello sviluppo della propria formazione e carriera lavorativa (primo fra tutti una sana e intelligente rivisitazione dello smart working, accentuandone gli aspetti di “agilità” e consonanza con le reali esigenze del beneficiario)».
Ancora una volta, però, un dato basato su uno studio dello stesso Ispettorato dimostra come le imprese italiane, nella fase pre Covid-19, non siano mai state inclini ad accogliere le richieste di flessibilità di lavoratrici e lavoratori, tanto che nell’anno 2019 sono state accolte solo per il 21%. Anche in tal caso, mancano i dati del 2020, in cui – a causa del rischio sanitario – la gestione della flessibilità ha avuto una decisa impennata, imposta tuttavia dalle circostanze. Il dato sulle 37mila dimissioni, quindi, conferma la preoccupazione per un mercato del lavoro femminile che non solo stenta a decollare, ma rischia concretamente di implodere, se non si adotteranno strumenti volti ad agevolare l’attività lavorativa e la realizzazione professionale delle donne. «Il tutto parte però dalla formazione e dall’educazione culturale, che non può che iniziare sin dai banchi di scuola – conclude Radoccia - . Va dunque salutata con favore l’attenzione del governo per garantire al pubblico femminile voucher per master universitari. Tuttavia, questo è solo un piccolo frammento di una politica rosa che purtroppo pecca ancora di carenza di strategia e forse anche di mancanza di volontà politica. Auspichiamo dunque che le donne italiane formate, spesso durante percorsi universitari che le hanno viste protagoniste rispetto ai colleghi uomini, non siano costrette ad uscire dal mercato del lavoro privando la nostra economia del valore aggiunto di tante professionalità contraddistinte».