venerdì 19 gennaio 2024
C'è alta tensione sui nuovi giacimenti del Mediterraneo, che hano bisogno di futuri clienti e possono ostacolare il piano di “dominanza energetica” degli americani
Nella partita del gas per l’Europa gli Usa e Israele sono avversari

ANSA

COMMENTA E CONDIVIDI

Sono sempre più agitate le acque del Mediterraneo, dove sia a occidente sia a oriente diversi attori energetici si sfidano senza esclusione di colpi in aree geografiche già in fiamme, da Cipro a Gaza all’Oceano indiano. L’Italia non è estranea a questa competizione, anzi, il suo destino, dopo la crisi energetica dovuta all’abbandono delle risorse russe, è strettamente legato a questo risiko che coinvolge Egitto, Israele, Libano, Turchia e Cipro. Paesi che per il momento in ordine sparso, potrebbero però inficiare gli sforzi degli Stati Uniti per creare un nuovo regime di monopolio energetico sull’Europa con il suo gas naturale liquefatto, la cosiddetta strategia della “Energy dominance”.

Nel quadrante orientale del Mediterraneo, infatti, negli ultimi anni sono emersi enormi giacimenti: Zhor, nelle acque di fronte all’Egitto, i giacimenti israeliano-ciprioti, come Leviathan (dalle capacità così grandi da essere definite “inesplorabili” al momento), quelli al largo di Gaza, che Israele impedisce ai gazawi di sfruttare, oltre ad altri come Mari al largo della costa palestinese e israeliana fino a terminare nelle acque territoriali libanesi. Attualmente quegli Stati sono in conflitto, e tutti i bacini sono oggetto di dispute sui diritti di utilizzo.

Perché se alcuni sono in acque territoriali, per quelli al largo la comunità internazionale ha decretato delle “Aree di sfruttamento esclusivo” che di fatto sono un po’ la divisione a spicchi di quella parte del Mare Nostrum, e per essi il confronto potrebbe divenire estremo, anche militare, non solo per i Paesi già in guerra ma anche per i loro vicini geografici. «Bisogna fare in fretta – spiega un tecnico di una primaria società petrolifera italiana – perché sviluppare le infrastrutture costa moltissimo, e con un modello green alle porte bisogna investire ora che i prezzi del petrolio sono contenuti, dopo i 120 dollari al barile sarebbe anti-economico».

I tempi del gioco sono cortissimi soprattutto perché all’orizzonte si delinea il piano di fornitura atlantico verso l’Europa, attivo via via sempre più già da quattro anni: una rivoluzione macroeconomica che potrebbe permettere agli Usa, se il servizio venisse fornito in regime di monopolio, 20 o 30 anni di crescita economica, e a noi altrettanti di stagnazione. Ma che comunque, una volta a regime, renderebbe quasi inutile una direttrice mediterranea. Nei confronti di questa rivoluzione l’Italia si è posta in una posizione complementare, ovvero accettando di diventare un hub di rigassificazione e distribuzione per le navi provenienti da oltreoceano. Al contempo però è stato ideato un “Piano Mattei” che prevede una diversificazione delle forniture implementando la produzione da Paesi africani o Mediorientali: «Purtroppo al momento siamo alle dichiarazioni d’intenti – spiega Michele Marsiglia, presidente di Federpetroli – attendiamo quindi la conferenza Italia-Africa del 28 e 29 gennaio a Roma per capire nel dettaglio la politica estera e di sviluppo economico delineata sul fronte energetico, perché ovviamente l’una richiede l’altra».

Tra gli Stati che potrebbero fornire grandi quantità di gas “alternativo” a parte l’Iran (che è considerato un nemico geopolitico ed è embargato) c’è proprio Israele, che si appresta, con Netanyahu, a una sua rivoluzione industriale petrolifera, divenendo, quindi, un concorrente degli Usa «che infatti nella questione palestinese hanno appoggiato il tradizionale alleato – sottolinea Marsiglia - ma si sono posti con grande prudenza». Le tecnologie di fracking che gli israeliani condividono con gli americani, infatti, permetterebbero a Israele di diventare un player principale degli idrocarburi, con i terminali che passano sulla costa verso l’Egitto, ma proprio nel mare davanti a Gaza, e i pozzi vergini ancora da sfruttare, ma che sono a distanza di tiro dai razzi di Hezbollah. «Solo un accordo tra Stati quindi potrà permettere uno sviluppo di quello snodo strategico – spiega Marsiglia – ma al momento pare che non sia la linea prevalente».

E la freddezza dei Paesi Arabi, di cui si temeva la sollevazione di fronte all’invasione di Gaza, forse si spiega anche con gli interessi sulle pipeline che scorrono nel deserto e si dirigono, ancora una volta, verso la Palestina e da lì, lungo la costa, sempre verso i due grandi impianti di rigassificazione egiziani. In questo panorama, insomma, le tensioni dovute alle violenze in corso si sovrappongono al risiko petrolifero, con il gasdotto EastMed che sarebbe dovuto passare per la Turchia fino in Europa e che invece sembrerebbe un progetto morto. La Turchia però non ci sta all’abbandono di EastMed e inscena ritorsioni «come si è visto nel caso della nave Eni bloccata», conferma Marsiglia. Non a caso Ankara è tra le più attive oppositrici di Israele sull’invasione di Gaza, probabilmente non solo per motivi umanitari ma per continuare ad avere un ruolo nell’area.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI