La riforma del Terzo settore varata dal governo nel 2016 si sta definitivamente concretizzando. Il primo decreto attuativo, sul Servizio civile, è stato licenziato a febbraio. Nei giorni scorsi il Consiglio dei Ministri ha approvato lo statuto della Fondazione Italia Sociale. E nei prossimi mesi dovrebbero arrivare gli altri decreti che specificheranno l’architettura normativa e regolamentare per i prossimi anni. La domanda, allora, s’impone: dove va il Terzo settore? O, più esattamente, dove potrà andare? La questione è cioè se le opportunità offerte dalla riforma saranno colte e se le organizzazioni, le persone, che ogni giorno gli danno vita, riusciranno a imporre il Non profit come infrastruttura al servizio del Paese per la costruzione di un modello di sviluppo socio-economico più sostenibile, equo, inclusivo. Un’analisi anche per sommi capi delle prospettive del Terzo settore non può che partire dalla fotografia che ne ha scattato il censimento Istat del 2011.
Una fotografia un po’ ingiallita, ma che sarà ora rinnovata con più frequenza dalla rilevazione campionaria permanente sul non profit lanciata dall’Istat, che dovrebbe aggiornare la base di dati del censimentoo ogni due anni. Il Non profit italiano è un universo di oltre 300mila realtà, di forma e dimensioni assolutamente eterogenee. Occupa circa un milione di persone ed è sostenuto da oltre 5 milioni di volontari. Il valore economico del non profit si aggira sui 65 miliardi di euro (circa il 5% del Pil), aggregando il 6,4% delle unità economiche attive. Quali, allora, le sfide che questa corposa macchina ha di fronte nel percorso dei prossimi anni? Fra le principali, sembrano emergerne tre.
La prima sfida. La prima e probabilmente più importante sfida è quella dell’ibridazione tra non profit e profit, di forme giuridiche, modelli e strumenti, anche finanziari: si pensi ad esempio agli investimenti a impatto e a tutta la finanza per il sociale, in gran fermento (Borsa Italiana ha appena aperto un segmento per green e social bond, Humand Foundation e Fondazione Sviluppo e Crescita Crt hanno presentato la settimana scorsa uno studio di fattibilità per social impact bond legati al reinserimento di ex-detenuti). Per molto tempo il non profit ha prima fuggito e poi accettato quasi per necessità (stante la progressiva riduzione delle risorse pubbliche dedicate) l’apertura di un rapporto di confronto e reciproca contaminazione con le aziende. È una direzione in cui occorre invece investire massicciamente, lasciando da parte i timori di 'perdere l’anima' e maturando invece la consapevolezza che nei confronti di un profit assetato di senso e di responsabilità sociale – perché questo richiede il mercato –, il non profit ha tutto per esercitare un ruolo di ispirazione e indirizzo, da posizione quanto meno paritaria. Anche perché a prescindere da classificazioni sempre meno capaci di rappresentare la realtà in evoluzione, le imprese del futuro, profit o non profit, per legittimarsi dovranno dimostrare di saper produrre un impatto positivo su società e ambiente, utilizzando tra l’altro strumenti di misurazione (è tutto il tema degli indicatori d’impatto sociale come lo Sroi-Social return on investment) e di rendicontazione adeguati.
La seconda sfida. È quella della digitalizzazione. Cresce giustamente il dibattito sull’industria 4.0, dovrà crescere quello sul non profit 4.0: più tecnologico, digitalizzato, propenso a ricercare, sperimentare e diffondere l’innovazione che poggia sulle nuove tecnologie. Il punto è mettere le potenzialità da esse offerte (si pensi solo ai nuovi canali digitali da coltivare per attrarre donazioni e consolidare la relazione coi sostenitori, o alla gestione dei big data per orientare al meglio sforzi e risorse) al centro della propria attività, in senso strategico e operativo. Anche qui investendovi adeguatamente, allo scopo unicamente di rafforzare la capacità di conseguire la propria mission.
La terza sfida. Una terza macro-sfida è quella della visione europea. Su molti aspetti l’Europa, si sa, è a rischio disgregazione. Mai come ora, dunque, è fondamentale individuare ambiti nei quali invece l’unica strada percorribile è con tutta evidenza quella dell’unione delle forze su base continentale e forse anche più ampia (si pensi al bacino del Mediterraneo). Sviluppare un respiro europeo, a partire dallo sviluppo di relazioni, di progettualità e iniziative condivise (interessanti al riguardo le mappature delle imprese sociali in Europa su cui ha lavorato negli ultimi anni Euricse), di modalità comuni per intercettare e rispondere ai bisogni, è una condizione indispensabile per immaginare un non profit capace di futuro. Cioè capace di crescere, in dimensione ma più che altro in autorevolezza, per non restare confinato nella marginalità.