giovedì 12 dicembre 2024
Al 2021 sono tre milioni le persone "irregolari". Oltre a essere senza tutele, spesso rischiano la vita per mancanza di prevenzione e formazione
Immigrati nei campi

Immigrati nei campi - Ansa

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Il lavoro “nero” fa spesso rima con le “morti bianche”. Ce lo ricorda la cronaca recente. A Ercolano (Napoli) sono morti tre giovani in una fabbrica clandestina di fuochi d’artificio. I sostituti procuratori Stella Castaldo e Vincenzo Toscano hanno contestato al titolare di fatto dell'abitazione trasformata in polveriera l'omicidio volontario plurimo con dolo eventuale in concorso, la detenzione e la fabbricazione di materiale esplodente non convenzionale e anche il reato di caporalato in concorso. Il provvedimento è stato emesso in relazione al pericolo di fuga dell'indagato che, secondo gli investigatori, anche nella veste di gestore della produzione dei botti illegali, avrebbe accettato il rischio che i ragazzi, suoi dipendenti "in nero", inesperti, rischiassero la vita maneggiando la cosiddetta polvere flash, miscela altamente instabile nella casa di via Petacca. Non solo. Li avrebbe pagati appena qualche centinaia di euro alla settimana (250 al ragazzo deceduto e appena 150 ciascuna alle due ragazze), approfittando dello stato di necessità in cui versavano. A Torre Annunziata, sempre nel Napoletano, è ceduta parte di una tettoia nella zona di un centro commerciale e un operaio di 29 anni colpito dai frammenti è rimasto gravemente ferito. L'uomo, dopo i primi soccorsi, è stato trasferito dal 118 all'ospedale del Mare per politraumi da schiacciamento. La Procura di Torre Annunziata ha disposto il sequestro dell'area interessata.

Al 2021 sono tre milioni le persone con lavoro irregolare. È quanto emerge da una elaborazione Uil su dati Istat sul sommerso. Mentre un esercito invisibile di 200mila irregolari lavora nel settore agricolo (pari al 30% del totale dei dipendenti). È uno squarcio profondo nel velo dell'illegalità che ancora oscura la filiera agroalimentare italiana, dove il lavoro povero, precario e sfruttato, alimenta un settore che registra valori economici più che elevati da 73,5 miliardi di euro. Donne e uomini che in media guadagnano poco più di 6mila euro l'anno, spesso sottoposti a fenomeni di sfruttamento e caporalato, senza contratti e diritti, che vanno ad alimentare cospicue filiera controllate dalla criminalità organizzata. E le donne lavoratrici rappresentano le potenziali vittime di sfruttamento, 55mila per la maggior parte non intercettate dalle istituzioni. Sono alcuni dei dati del VII Rapporto Agromafie e caporalato di Flai Cgil.

Nel 25esimo rapporto del Cnel-Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro su Mercato del lavoro e contrattazione collettiva, alla Campania va il triste primato dei lavoratori “invisibili”. Infatti, si registrano gli indici più elevati (43%) di lavoratori al nero, sul totale territoriale di impieghi irregolari. Cioè, tra tutte le tipologie di irregolarità (lavoro nero o grigio o parzialmente irregolare eccetera) in Campania c’è la più alta incidenza di forme estreme del fenomeno. La Campania, quindi, si conferma la “patria” del lavoro nero e del caporalato, un fenomeno che continua a colpire duramente l’economia e il tessuto sociale della regione. I dati diffusi dalla Cgia di Mestre sono allarmanti: 308.200 occupati non regolari, con un tasso d’irregolarità del 16,5% e un’incidenza sul valore aggiunto regionale del 6,9%. Secondo l’Istat, dei 2.848.100 occupati non regolari stimati in Italia, 1.061.900 si trovano nel Mezzogiorno. La Calabria ha il tasso di irregolarità più alto con il 19,6%, seguita dalla Campania con il 16,5%. Nell’Agro Nocerino Sarnese, il caporalato resta una pratica diffusa soprattutto nel settore agricolo. Le vittime principali sono i più vulnerabili: persone in condizione di estrema povertà, immigrati e donne. Il lavoro nero è spesso l’anticamera del caporalato, una piaga che non affligge solo l’agricoltura, ma anche settori come l’edilizia, il tessile, la logistica e i servizi di consegna e assistenza.

Tra i lavoratori “poveri” i rider, spesso sottopagati, senza contratto o tutele. Costretti a un lavoro rischioso. Anche se dopo il negoziato di mesi e un accordo già raggiunto in primavera, gli Stati dell’Unione Europea hanno approvato in ultima battuta la nuova normativa sui diritti dei lavoratori delle piattaforme digitali. Il voto conferma l'intesa per garantire trasparenza nell'uso degli algoritmi sul posto di lavoro e riconoscere per la prima volta più tutele a un comparto che occupa, secondo le stime, oltre 30 milioni di persone nell'Ue: autonomi a chiamata o parasubordinati che vanno dai tassisti, ai rider per le consegne dei pasti, dai lavoratori a domicilio, passando per babysitter, operatori socio sanitari e badanti e molti altri ancora. La stessa ministra del Lavoro e delle Politiche sociali Marina Elvira Calderone ha garantito «grande attenzione del ministero in ordine al riconoscimento e ampliamento delle tutele dei rider». La ministra ha poi ricordato l'attuale normativa che in Italia determina «tutele minime» come la garanzia di una indennità integrativa non inferiore al 10% per le prestazioni lavorative svolta di notte o durante le festività o in condizioni meteo sfavorevoli; che obbliga il datore al rispetto delle prescrizioni in materia di salute e sicurezza nel lavoro anche in condizioni meteo avverse; che stabilisce tutele anti-discriminazione vietando le esclusioni dalle piattaforme e riduzioni delle occasioni lavoro ascrivibili alla mancata accettazione della prestazione.

Tuttavia resta difficile arginare il “nero” e contenere gli infortuni legati alla mancanza di prevenzione e di misure di sicurezza idonee. A eccezione del Molise, è diminuita in tutte le regioni d’Italia la dimensione dell’economia non osservata, composta dalla sottodichiarazione, dal lavoro irregolare e dalle altre attività non dichiarate. A livello regionale gli ultimi dati disponibili sono riferiti al 2021 da cui emerge che, in valore assoluto, le contrazioni più importanti hanno riguardato il Lazio con -2,2 miliardi di euro, la Lombardia -1,9 miliardi, la Campania con -1 miliardo e la Toscana con -943 milioni di euro. A dirlo è l’Ufficio studi della Cgia. Ci sono due unità di misura per valutare il peso dell’economia non osservata. In valore assoluto o in termini percentuali sul valore aggiunto regionale. Se si fa ricorso alla prima modalità, il fenomeno si concentra nelle regioni settentrionali, che tendenzialmente sono caratterizzate da un maggior numero di abitanti e con un livello di ricchezza prodotta molto superiore alla media. Infatti, l’impatto più elevato dell’economia non osservata si registra in Lombardia con 31,3 miliardi di euro. Segue il Lazio con 20,9, la Campania con 18, il Veneto con 15 e l’Emilia Romagna con 14,8. Diversamente, se prendiamo come parametro di riferimento l’incidenza percentuale di questa piaga sociale ed economica sul valore aggiunto regionale (praticamente il Pil), la realtà più investita è la Calabria con il 19,2%. Seguono la Campania con il 18%, la Puglia con il 17,6%, la Sicilia con il 17,3%, la Sardegna e il Molise entrambe con il 16,3%. Come si può notare, rapportando gli importi al valore aggiunto prodotto in ogni regione, si riscontra la consueta dicotomia tra regioni del Nord e quelle del Sud, con queste ultime che presentano una maggiore tendenza alla non-compliance.

Mentre un’indagine condotta in collaborazione con Fondazione Giacomo Brodolini dall’Inapp- Istituto nazionale per le analisi delle politiche pubbliche, ha analizzato le condizioni della manodopera di origine straniera impiegata in settori come agricoltura, edilizia, lavoro domestico e turismo, che notoriamente risultano tra quelli a maggior rischio di sfruttamento. Lo studio ha coinvolto oltre 2mila immigrati domiciliati in Italia, provenienti dalle aree di particolare gravità di lavoro sommerso, appartenenti a 85 nazionalità, con una distribuzione territoriale che include grandi città metropolitane come Roma, Milano, Bologna, Napoli e diverse province (Cuneo, Treviso, Rimini, Grosseto, Foggia e Ragusa), tutte realtà caratterizzate da un’elevata presenza di lavoratori di nazionalità straniera. Gli intervistati sono soprattutto uomini (1.291 rispetto a 730 donne), con una maggioranza tra i 25 e i 34 anni (37%). Tre quarti dei rispondenti provengono da Paesi extra-Ue, con una prevalenza di marocchini, ucraini, albanesi e tunisini. Fra gli uomini si nota una maggiore concentrazione di persone provenienti da Paesi africani (Marocco, Tunisia e Senegal), mentre i nativi dell’Est-Europa (Albania, Romania e Ucraina) appaiono meno numerosi. Per le donne vale il discorso inverso: la nazionalità maggiormente rappresentata è quella ucraina, seguita da lavoratrici romene, polacche e moldave.

I temi maggiormente analizzati riguardano le condizioni di irregolarità lavorativa, con dati che confermano in maniera sostanziale le statistiche ufficiali riferite ai settori economici in cui meno esteso è il ricorso a sistemi di tutele-standard: tra gli intervistati si rileva la presenza di un 51% di persone che lavorano in assenza di contratto, ma più ampio appare il novero delle persone straniere coinvolte dal cosiddetto “lavoro grigio”, caratterizzato da tutte le diverse ipotesi in cui alla stipula di un contratto si accompagna l’inosservanza, nella pratica, di norme legislative e contrattuali. L’attività più diffusa tra i “lavoratori grigi” riguarda il “personale non qualificato nell’agricoltura e nella manutenzione del verde” (22,1% del segmento), mentre i lavoratori senza alcun contratto appartengono per lo più al “personale non qualificato nei servizi di pulizia di uffici, alberghi, navi, ristoranti, aree pubbliche e veicoli” (19,3% di quanti vengono impiegati in nero). Il 29,1% degli intervistati si trova in una condizione di irregolarità amministrativa, una percentuale più alta tra gli uomini (32,7%) rispetto alle donne (18,5%). Questa condizione espone la manodopera straniera a forme di impiego ambiguo e subottimale: molti sono disposti a lavorare senza contratto (38%) o accettare mansioni dequalificate (30,2%).

Un altro tema oggetto dell’indagine riguarda la salute e la sicurezza sul lavoro: otto intervistati su cento hanno subito infortuni sul lavoro, ma solo il 57,6% di questi ha richiesto assistenza sanitaria in esito al rispettivo incidente. L’assenza di denuncia è spesso legata a consigli esterni o alla paura di perdere il lavoro, evidenziando un deficit di tutele sul punto. Non è mancata l’attenzione verso le donne: in particolare si trovano ad affrontare sfide specifiche nel settore del lavoro domestico (35,6%) caratterizzato dalla sostenibilità della spesa.

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