Se non vogliamo disperdere l’indignazione e la sofferenza che sta
procurando il “crac delle quattro banche”, e magari anche quelle
generate dai crac che l’hanno preceduto in questi ultimi anni e che
abbiamo presto dimenticato (le memorie collettive delle disgrazie sono
sempre troppe corte), dobbiamo riformare seriamente il governo interno
delle banche e dar vita a una vera educazione economico-finanziaria
popolare, nelle scuole e nella società civile.Le banche non sono mai state soltanto imprese. Tutti noi continuiamo a vederle come dei “luoghi della fiducia”, e così
affidiamo
loro i nostri risparmi e i nostri investimenti. Sono tra le istituzioni
dei nostri paesi e delle nostre città, insieme alla Scuola,
all’Ospedale, al Comune. Gestendo i risparmi amministrano il rapporto
tra le generazioni, e sono la prima cinghia di trasmissione tra famiglie
e imprese. In altre parole, sono chiamate a svolgere funzioni di bene
comune e di interesse generale. Per queste ragioni, fino a pochi decenni
fa, le banche non erano soltanto delle imprese come quelle che
producono scarpe o vestiti. E quindi non erano, né potevano essere,
aziende a solo scopo di lucro. Ma l’ondata di ideologia
mono-mercatista che da qualche decennio sta invadendo il pianeta, ci ha
via via convinto che tra una banca e una impresa di automobili non ci
fosse alcuna vera differenza. Perché l’obiettivo è diventato lo stesso:
massimizzare il valore per gli azionisti. E così è radicalmente cambiata
anche la cultura dei banchieri e dei bancari, che oggi escono dalle
stesse business school che formano i manager delle grandi
multinazionali. Si è persa qualsiasi specificità del funzionario di
banca rispetto al lavoratore e al dirigente di ogni grande impresa
privata (o pubblica). Gli stessi consulenti globali, gli stessi
strumenti di gestione, la stessa logica dell’incentivo – non a caso
dietro all’offerta drogata e sconsiderata di obbligazioni subordinate
c’era una precisa politica di incentivazione dei dipendenti. Le banche nel Novecento erano
anche imprese: ora sono
soltanto
imprese, una trasformazione avvenuta nel silenzio complice della
politica, delle banche centrali e dei sindacati. E nella distrazione di
troppi di noi.Se vogliamo veramente invertire questa rotta
(operazione ormai durissima), occorrerebbero due grandi riforme. La
prima riguarda scuola e società civile. È diventato, infatti, troppo
grande il divario tra l’importanza della finanza e dell’economia e la
cultura finanziaria ed economica media della popolazione. Non possiamo
più continuare a vivere da analfabeti in un mondo che “parla” sempre più
finanza ed economia. Qualche anno fa, in piena crisi del debito, su
queste colonne lanciammo l’idea di dar vita a
scuole popolari di economia e finanza
– un invito raccolto solo da qualche città, tra queste Catania. Chi
oggi ha a cuore la democrazia e il bene dei più fragili deve occuparsi
anche di cultura economica e finanziaria. C’è bisogno di una
nuova stagione di scuole popolari nelle parrocchie, negli oratori,
nelle associazioni, nei circoli. E alla scuola spetta un ruolo cruciale:
dobbiamo inserire elementi di economia e di finanza negli ultimi anni
di tutte le scuole superiori. Se non si vogliono appesantire i già
pesanti programmi curriculari, si possono immaginare, con creatività,
laboratori pomeridiani o durante l’estate, attività svolte da volontari e
dalle tante associazioni che hanno una
missiondi economia e finanza sociale e civile.La
seconda riforma riguarda direttamente il governo delle banche: il peso e
la responsabilità delle banche e delle istituzioni finanziarie sono
ormai troppo grandi per lasciarlo in mano soltanto agli azionisti. Le
banche non rispondono fino in fondo dei loro comportamenti. Una legge
etica fondamentale del mercato dice che alla libertà di scelta deve
corrispondere la responsabilità patrimoniale, civile e penale di chi
sceglie. Questa regola, già in crisi per tutte le imprese molto
grandi, è quasi inapplicabile alle banche, i cui interessi sono troppo
intrecciati con quelli delle famiglie, delle imprese, e del sistema in
generale per essere isolati e chiamati a rispondere per i danni che
generano. Se allora la responsabilità per le conseguenze delle azioni
delle banche è condivisa con l’intera società civile, occorre che sia
condiviso anche il governo delle banche. Dobbiamo trovare meccanismi
(non facili, ma non impossibili) perché nei Consigli di amministrazione
delle banche non ci siano solo rappresentanti scelti dagli azionisti, ma
pure quelli designati dalla società civile. Inoltre, in tutte le banche
sarebbe opportuna l’istituzione di un “comitato etico” indipendente
(come accade in Banca Etica), con potere di veto. Una tale riforma non
verrà mai dall’interno del mondo finanziario: dovremmo essere noi
cittadini ad avere la volontà e la forza di chiederla dal di fuori e con
gli strumenti che abbiamo. Sarebbe il primo inizio di una sostanziale
democrazia economica.Non è più possibile pensare al rapporto
tra banche e società come nel passato, quando le istituzioni e la
politica controllavano economia e finanza solo dopo, a valle. Oggi, con
la velocità dell’economia e con il cambiamento della cultura bancaria,
c’è bisogno che il controllo etico e di legittimità venga esercitato
dall’interno e durante l’esercizio dell’attività ordinaria. Perché
quando le acque dei fiumi avvelenati a monte giungono a valle, hanno già
prodotto molti danni, ed è sempre troppo tardi. Le acque non risalgono
la corrente. Gli inquinamenti della fiducia vanno evitati alla fonte e
lungo il corso del fiume, perché sono le persone, non le banche, a
essere “troppo grandi per fallire”.