Alzi
la mano chi non vorrebbe che l’energia per le imprese costasse il 10%
in meno. O che l’Irap venisse ridotta. E c’è qualcuno non disponibile a
investire sul Made in Italy, preferendogli magari il Made in China? Ci
sono persone convinte che il diritto del lavoro debba essere
ulteriormente complicato, anziché semplificato e sburocratizzato?
Difficile, insomma, dissentire dalla bozza di piano lavoro presentata
l’altra sera da Matteo Renzi. Il suo Jobs Act (partito al
singolare, nell’ultima versione ha acquistato la s del plurale, forse
anche questo un segnale...) è in fondo un’elencazione di alcuni dei nodi
che attanagliano il nostro sistema economico da lunga pezza, assieme ad
alcune indicazioni di massima – molto, molto di massima in verità – di
come potrebbero essere sciolti.
È intuitivo, infatti, che il costo dell’energia per le imprese può
essere ridotto solo se si individua una compensazione. E così pure, per
restare a un esempio simile, giusto che le imposte sul lavoro possano e
debbano essere ridotte aumentando contemporaneamente quelle sulle
rendite finanziarie. Ma il quanto e soprattutto il come, per quali
risparmiatori o investitori, si realizza questo trasferimento di
prelievo fa la differenza, quasi più del principio stesso. Questa
indeterminatezza pesa in particolare quando si passa a discutere più
propriamente di lavoro.Sulla questione centrale del “Contratto
prevalente a tutela crescente” il piano di Renzi non va al di là del
titolo, evidentemente per non far infiammare subito le polemiche sul
totem dell’articolo 18, che già stanno surriscaldando il Pd e la
sinistra. Non è differenza da poco, però, se con quel termine si pensa a
un contratto di inserimento nel quale la libertà di licenziare per
l’imprenditore sia limitata al primo triennio (una sorta di prova lunga)
come nell’ipotesi avanzata anni fa dagli economisti Boeri e Garibaldi.
Oppure se ci si muova, sulla falsariga del pensiero di Pietro Ichino,
verso un sistema più complesso nel quale la reintegra in caso di
licenziamento illegittimo viene limitata alle sole discriminazioni e in
tutti gli altri casi viene previsto solo un risarcimento monetario,
assieme a un piano di ricollocamento. E così pure è fondamentale capire
quali e quante forme contrattuali vengono previste, perché pensare che
una e una sola possa adattarsi a tutte le imprese, per tutte le
mansioni, significa non aver compreso la complessità dei rapporti di
lavoro. Semplificare si può, forse si deve, ma per favore non si
continui a propalare la “bufala” che esistano 40 tipologie contrattuali
diverse.E attenzione a non bloccare nuovamente le occasioni
d’impiego, seppur a termine, come già sperimentato con la riforma
Fornero.
Ancora, una legge per la rappresentanza sindacale – che fissi cioè il
grado di rappresentatività di ogni sigla e in base a questo il diritto a
firmare i contratti – è utile sul piano teorico, ma se non valorizza in
chiave sussidiaria la capacità di autoregolarsi e riconoscersi
reciprocamente delle parti sociali rischia di provocare più danni che
benefici. Stesso discorso per la partecipazione dei lavoratori alla
gestione delle imprese: una svolta che auspichiamo da tempo. Un conto,
però, è costruire le condizioni perché nasca dal basso, tutt’altro
effetto avrebbe invece un’imposizione dall’alto con l’obbligo per le
aziende private di avere, tutto a un tratto, nel consiglio
d’amministrazione (non di sorveglianza...) uno o più rappresentanti
eletti dei lavoratori (anche azionisti?). E si potrebbe parlare ancora
dei rischi di uno spoil system assai
costoso con la scelte dei dirigenti pubblici a termine. O di come
finanziare il sussidio universale di disoccupazione e far sopravvivere,
però, una qualche forma di cassa integrazione per non dover costringere
le aziende a licenziare gli operai ad ogni fermata produttiva...
Insomma, le incognite al momento superano le certezze. Come ha
efficacemente sintetizzato ieri Renata Polverini: «Il Jobs Act sembra
una visita all’Ikea... quando torni a casa, ti accorgi che i mobili
sono difficili da montare!».Vero è che Renzi ha parlato di «bozza sulla quale raccogliere critiche e
suggerimenti». Indicando – per un nuovo Codice del lavoro – il termine
di 8 mesi, ben al di là dunque della prima finestra utile per votare a
maggio, assieme alle europee (un messaggio a Letta e agli alleati di
governo). Ci sarà tempo di discutere e fare, dunque. Per ora Renzi
stesso – dopo qualche rischiosa divagazione – ha raggiunto un primo
risultato importante: rimettere questi temi al centro dell’attenzione
politica. Bene, adesso si lavori davvero a un cambiamento preciso,
concreto e veloce. Astenersi perditempo e nostalgici delle ideologie.
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