Alcuni dati della ricerca - Inapp
Dopo il blocco il rientro al lavoro non è stato uguale per tutti. Le differenze di genere si sono amplificate e a rimetterci sono state le lavoratrici che hanno pagato il prezzo più alto della crisi. A pesare sono stati essenzialmente due fattori: la differenza retributiva che ha riportato al lavoro per primo il partner che guadagna di più e il carico familiare, dall’accudimento dei figli ai genitori non più autosufficienti, in gran parte di competenza femminile. L’insieme di questi fattori ha portato nel 15% dei casi ad un “accordo familiare” in base al quale la donna rimanda, pospone e modifica il suo rientro al lavoro sino alla decisione di abbandonarlo. La retribuzione femminile mediamente più bassa e l’assenza di condivisione del partner in questa funzione rende il lavoro delle donne “sacrificabile”, ma con un costo nel medio termine sulla crescita del Paese. Un quadro che non è stato favorito neanche dall’utilizzo del congedo Covid 19, che si proponeva di favorire il riequilibrio del carico di cura nella coppia. Nonostante, infatti, la norma consentisse la divisione col partner dei giorni di congedo, il 90% delle donne lo ha utilizzato interamente per sé e solo l’8% ha diviso i giorni con il partner.
Questi problemi sono stati rilevati dallo studio Il post lockdown: i rischi della transizione in chiave di genere dell’Inapp-Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche basato su 689 interviste con un questionario, strutturato in cinque sezioni, che ha toccato tutti gli aspetti della transizione: profilo personale; condizione lavorativa; caratteristiche della transizione dal periodo di confinamento dalla fase 1 (4 marzo-3 maggio) alla fase 2 (dal 4 maggio in poi).
«Se si volesse definire con uno slogan la caratteristica del periodo che va dal 4 maggio in poi, in ottica di genere, potrebbe essere “men first” – si legge nel report -. Dopo il lockdown, infatti, a rientrare al lavoro fuori casa sono prima, e in misura maggiore, gli uomini, sia nel caso del lavoro dipendente che del lavoro autonomo/indipendente. Il rientro al lavoro è legato essenzialmente a tre elementi: prima di tutto alla normativa (che ha definito il calendario di riapertura delle attività produttive), poi alla richiesta specifica dei datori di lavoro e infine a una sorta di “accordo familiare». In caso di presenza di figli, è soprattutto questo accordo con il partner che ha accentuato le differenze. Il 15 % delle donne intervistate, infatti, dichiara di aver potuto rientrare al lavoro, ma di non averlo fatto per rispondere alle esigenze del carico familiare. Dietro a questa scelta si nascondono “motivazioni organizzative, culturali (“la capacità di cura e gestione familiare”) ed economiche: il reddito del partner è più alto e la perdita economica familiare è più bassa se a lasciare il lavoro è la donna.
«Dall’ indagine del nostro Istituto emerge che il care burden incide fortemente sulle dinamiche della transizione tra la fase del lockdown e la fase della graduale ripresa delle attività lavorative – spiega il presidente dell’Inapp Sebastiano Fadda – acutizzando la diseguaglianza di genere e intralciando una più robusta ripresa economica. Ciò suggerisce due importanti considerazioni. La prima è che i provvedimenti di emergenza dovrebbero assumere una più forte calibratura compensatrice di questa asimmetria di genere. La seconda è che questo, tuttavia, non è sufficiente: è necessario che la funzione di lavoro di cura venga per quanto possibile trasposta a livello di prestazioni professionali qualificate e retribuite nell’ambito di una ristrutturazione dei sistemi di welfare. Ciò produrrebbe un effetto immediato di innalzamento del livello di attività economica e consentirebbe una maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro».