Alcuni risultati del rapporto - Inapp
Negli ultimi dieci anni i contratti a tempo determinato sono aumentati di oltre 800mila unità registrando un’impennata del +36,3% con una variazione dell'occupazione complessiva pari appena all'1,4%. E non solo: anche la distribuzione funzionale del reddito ha mostrato un peggioramento persistente come conseguenza della contrazione marcata delle retribuzioni salariali a fronte del trend crescente, seppur debolmente, della produttività del lavoro. La flessibilità nel nostro Paese si traduce così in una sempre maggiore precarietà, un andamento che continua anche nella ripresa post covid dove sono sempre i contratti a termine, part time e di somministrazione ad essere scelti dalle imprese (nel trimestre marzo-maggio 2021 gli occupati precari sono saliti di 188mila unità mentre gli stabili sono diminuiti di 70mila unità). Le imprese sembrano così non scommettere con convinzione sulla ripartenza dopo la crisi imposta dalla pandemia, dove solo il blocco dei licenziamenti ha tutelato di fatto i lavoratori più fragili. È uno degli aspetti che emerge dal Rapporto 2021 dell’Inapp presentato a Montecitorio presso la Sala della Regina dal presidente dell’Istituto, il professor Sebastiano Fadda. È il primo Rapporto dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche che riprende una tradizione trentennale dell’Isfol e prova a tracciare in otto capitoli le trasformazioni in corso nel mercato del lavoro e nei sistemi della formazione professionale a fronte dei macro-trend globali di cambiamento dei sistemi economici, con spunti di riflessione sull’interazione tra tali processi e lo shock pandemico.
«Alla forte crescita in questi anni dei contratti a termine non è corrisposta una significativa creazione di nuova occupazione, ma semmai la conferma di uno stato di incertezza e precarietà – ha spiegato il presidente Fadda -. Nell’ultimo anno e mezzo per via della crisi innescata dalla pandemia molti lavoratori sono stati artificiosamente “congelati” nei loro posti di lavoro e adesso bisogna avere la capacità di “scongelare il lavoro” sostenendone la domanda sia nei settori tradizionali più colpiti sia in quelli più innovativi. “Scongelare il lavoro” dopo il blocco dei licenziamenti significa scommettere con determinazione sulla crescita economica e sulle politiche attive, in particolare con la formazione dei lavoratori che deve essere anche la base del reddito di cittadinanza; ovvero: bisogna fornire ai disoccupati non solo un sostegno economico ma soprattutto la possibilità di accrescere le proprie competenze. Come? Rilanciando e potenziando i centri per l’impiego, la cui azione è oggi fortemente carente. Pur essendo chiaro che non si può attribuire alle politiche attive e ai centri per l’impiego il compito di “creare” nuovi posti di lavoro, grava tuttavia su di essi il compito da un lato di favorire la copertura dei posti vacanti facilitando l’incontro tra domanda e offerta e dall’altro il compito di favorire l’acquisizione delle nuove competenze richieste dall’evoluzione dei sistemi produttivi».
Nel Rapporto Inapp si mettono in evidenza anche le sfide della Pubblica amministrazione con la riduzione progressiva e costante del numero di dipendenti pubblici avvenuta negli ultimi venti anni (circa 350mila unità, pari al 10% dell’organico, di cui 212mila nell’ultimo decennio). Alla riduzione di personale ha fatto da contrappunto il suo crescente invecchiamento, con un’età media dei dipendenti di 50,7 anni (era di 44 anni nel 2003) e una quota di under 30 pari ad appena il 3% del totale dei dipendenti, sei volte in meno degli over 60 (18%). Nella Pa in modo particolare si analizzano due settori: quello sanitario (un medico su cinque ha più di sessant’anni, sono previste per anzianità nei prossimi cinque anni 25mila uscite che salgono a 42mila per gli infermieri) e quello della scuola (negli ultimi dieci anni malgrado le assunzioni il personale over 60 è più che raddoppiato e il suo peso sul totale è passato dal 9 al 20%, tra i docenti a tempo indeterminato, il 22% ha più di 60 anni, e un altro 22% appartiene alla classe 55-59 anni: in tutto sono più di 280mila insegnanti (su 640mila) che per anzianità usciranno da qui ai prossimi cinque anni).
Altro tema approfondito è quello del Terzo settore dove operano quasi 360mila unità ma con il 14,2% di queste che a causa dell’emergenza sanitaria ha dovuto sospendere o chiudere le proprie attività di assistenza. Per converso la platea dei beneficiari del reddito di cittadinanza durante l’ultimo anno è raddoppiata raggiungendo 2,8 milioni di persone: segno evidente di un’Italia dove per via dell’emergenza sanitaria si è aggravata la povertà.