venerdì 25 maggio 2012
​In Italia sono 12.577. A queste si affiancano 110.913 organizzazioni: 22.468 enti non profit di natura produttiva e 88.445 for profit.
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​Iris Network, la rete nazionale degli istituti di ricerca sull’impresa sociale presenta, a due anni di distanza dalla prima edizione, il secondo Rapporto sull’Impresa Sociale. Il volume, curato da Paolo Venturi - Direttore di Aiccon e Flaviano Zandonai - Segretario di Iris Network e ricercatore di Euricse, ricostruisce la geografia dell’impresa sociale in Italia, analizzando un mix di esperienze consolidate ed emergenti che delinea un caso sui generis di innovazione sociale, radicato nei tessuti comunitari e parte integrante del sistema produttivo e istituzionale del nostro Paese.

Le imprese sociali in Italia sono 12.577. Tra queste, 365 hanno assunto la qualifica di “impresa sociale”, adeguandosi alla recente normativa in materia, 404 sono le organizzazioni che nella propria ragione sociale riportano la dicitura “impresa sociale” ma non ancora iscritte nella sezione dedicata e 11.808 le cooperative sociali (dati Unioncamere-Infocamere 2011), il modello giuridico-organizzativo di impresa sociale più diffuso e consolidato in Italia e in Europa.

A queste organizzazioni si affiancano 110.913 organizzazioni che costituiscono il “potenziale di imprenditorialità sociale”: 22.468 enti non profit di natura produttiva (diversi dalle cooperative sociali e dalle imprese sociali che hanno assunto la qualifica per legge) e 88.445 imprese for profit che operano nei settori identificati dalla normativa come ambiti in cui è possibile produrre e scambiare beni e servizi di “utilità sociale” in vista di obiettivi di “interesse generale”.Chi sono gli imprenditori sociali? L’indagine evidenzia una chiara prevalenza di imprese sociali di carattere collettivo, costituite da gruppi di persone che condividono ideali comuni, mentre sono poco meno del 20% le organizzazioni di impresa sociale costituite da imprenditori singoli. Si tratta inoltre di imprese, che nel corso del tempo hanno individuato precisi ambiti di azione sui quali hanno “puntato”, con prevalenza del settore socio-sanitario ed educativo, investendo risorse e generando un know how distintivo che ne ha rafforzato il posizionamento, permettendo loro di sviluppare una quota rilevante delle risorse economiche sul core business. I dati raccolti evidenziano inoltre che se da una parte circa la metà delle imprese sociali individua un ente pubblico come principale cliente pagante, una quota altrettanto consistente (poco meno del 40%) ha come cliente principale singole persone e famiglie, delineando così un processo di riconversione dei mercati in cui queste imprese scambiano beni e servizi di “utilità sociale”.Per quanto riguarda la propensione all’innovazione e le modalità più diffuse per finanziare gli investimenti, l’indagine mostra che l’investimento in innovazione più diffuso riguarda il sistema organizzativo e gestionale dell’impresa (poco meno del 20%) piuttosto che i prodotti (10%). Inoltre le imprese sociali compiono scelte di finanziamento ben precise ricorrendo a modalità piuttosto tradizionali: autofinanziamento (indicato da quasi il 70% delle imprese che investono) e in, seppur in posizione più distaccata, i prestiti da istituti di credito tradizionali.“È un quadro davvero articolato quello che emerge dal Rapporto – afferma Flaviano Zandonai – anche per quanto riguarda il potenziale di imprenditoria sociale che recenti provvedimenti, come la Social Business Initiative della Commissione Europea, potrebbero contribuire a liberare. Per questo – aggiunge Paolo Venturi – è necessario consolidare i modelli tradizionali, che sono alle prese con importanti processi di ristrutturazione, e al tempo stesso lanciare nuove startup sociali.

 
 
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