Uno degli opifici abusivi scoperti dai Carabinieri nell'ambito delle indagini sul lavoro nero nella moda - Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri / Ansa
Ci deve essere un limite anche a quello che si può non sapere. Soprattutto quando l’ignoranza – nel suo senso letterale, cioè il non conoscere determinate cose – può fare comodo.
Alla Giorgio Armani Operations conveniva non sapere come facessero a produrre borse e cinture di lusso società sprovviste di un reparto produzione. Nell’unico audit condotto sul fornitore nessuno evidentemente si era posto il problema. Adesso è chiaro com’è che facevano: affidavano il lavoro a quelli che i pubblici ministeri chiamano gli “opifici” cinesi. Cioè fabbriche dove nulla è regolare, secondo il resoconto offerto dalle forze dell’ordine: capannoni dove la normalità era fatta di lavoro nero, sfruttamento, turni da oltre dieci ore quotidiane, dormitori per avere i lavoratori sempre a disposizione in «condizioni igienico sanitarie sotto minimo etico».
È impossibile non riconoscere alcune delle ragioni delle associazioni industriali europee hanno spinto per ammorbidire la direttiva CSDD, quella che le impegna alla verifica della sostenibilità sociale e ambientale della propria filiera produttiva a livello globale. Andare a controllare quello che succede nelle fabbriche dei fornitori nel Sudest asiatico o nell’Africa subsahariana per vedere se tutto è in regola può essere laborioso, costoso, in certi casi incompatibile con la sostenibilità economica dell’attività di un’impresa (difatti la normativa sulle filiere sostenibili è stata un po’ allentata e salvo sorprese, il prossimo 11 aprile sarà approvata dal Parlamento europeo).
Nel caso della Giorgio Armani Operations, come in quello analogo che ha coinvolto a gennaio Alviero Martini, gli “opifici” dello sfruttamento erano dietro l’angolo. Nelle province di Milano e Bergamo, nel cuore dell’Italia più produttiva, a qualche decina di chilometri dalle “location” più “cool” dove un paio di mesi fa sfilavano modelle e modelli per mostrare i capi che le grandi maison hanno pensato per le collezioni autunno-inverno 2024-2025. Chissà come sarà il prossimo autunno-inverno in quei capannoni lombardi dove chi è sfiancato dorme e chi è sveglio lavora per fare arrivare in boutique una borsa rigorosamente Made in Italy.
Non c’era nessuna difficoltà tecnica ad assicurarsi che questa parte della filiera a cui grandi marchi della moda hanno affidato la produzione di cinture e borsette fosse in regola. L’unica difficoltà, se così vogliamo chiamarla, era finanziaria: quanto può incidere sui costi rinunciare a fornitori indecenti e affidarsi ad altri che rispettano le regole? Quanto può ridurre i margini e scontentare gli azionisti una politica di sostenibilità fatta sul serio? Le maison lo dovranno scoprire per forza, via via che le inchieste tolgono loro interi pezzi della catena produttiva.
Sarà interessante quanto il danno di immagine di una vicenda del genere peserà su Armani. Diverse indagini tra i consumatori condotte negli ultimi anni mostrano che la sostenibilità della moda interessa molto in teoria e poco nella pratica. In pochi si chiedono se i capi che comprano sono prodotti nel rispetto delle persone e dell’ambiente. Questo strabismo della sostenibilità riguarda clienti delle catene di fast fashion come Shein o Primark, che cercano i prezzi stracciati, ma anche quelli dei negozi di via Montenapoleone.