Nella trattativa sulla riforma del mercato del lavoro ci sono almeno due convitati di pietra. Il primo è rappresentato dai servizi per l’impiego – pubblici e privati – che dovrebbero svolgere un ruolo fondamentale nella promozione di politiche attive per l’occupazione e il ricollocamento. Tanto più necessarie quanto più, come auspicato dal premier Monti, la protezione dovrà spostarsi dal posto di lavoro al lavoratore nel mercato. Non avere fino ad ora neppure consultato le Agenzie per il lavoro, né prodotto studi sull’efficacia dei centri pubblici per valutarne il possibile apporto, segnala un deficit da colmare.Ancora più stridente rischia di essere l’assenza dal negoziato delle associazioni del mondo giovanile e delle rappresentanze professionali dei parasubordinati. A Palazzo Chigi e in Parlamento, infatti, si parla tantissimo dei giovani, ma nessun giovane viene fatto parlare. Se ne descrivono, anche un po’ a sproposito, presunte debolezze e auspicate virtù, ma non li si è mai ascoltati davvero. Come se la riforma che si vorrebbe "dedicare" proprio ai giovani potesse essere costruita senza di loro, prescindendo dalla loro voce: "Ecco il nuovo mondo del lavoro, dai vostri cari nonni e genitori", prendere o lasciare.L’impressione, infatti, è che nonostante il maggiore impegno profuso negli ultimi anni, le confederazioni sindacali fatichino ancora a rappresentare a pieno le istanze del mondo giovanile, a compiere una sintesi equilibrata fra le esigenze della loro base – in grandissima parte costituita da lavoratori dipendenti a tempo indeterminato e pensionati – e un vasto mondo "esterno" fatto di freelance, collaboratori, partite Iva più o meno autonome. Esiste, non ce lo nascondiamo, un problema di legittimazione a rappresentare una categoria sociale tanto variegata e complessa come quella dei giovani. Tuttavia, negli ultimi anni decine di movimenti sono nati e cresciuti con l’obiettivo di rappresentarne appunto le difficoltà dei ragazzi nel mercato del lavoro, organizzare la tutela dei parasubordinati, identificare i possibili miglioramenti. Un universo che sarebbe utile quantomeno sondare in profondità – ci si potrebbe dedicare il viceministro Martone – in parallelo allo svolgimento della trattativa "ristretta" con le parti sociali. Se ne potrebbero ricavare indicazioni preziose. Come quella di non eccedere, per l’ennesima volta, nell’aumento dell’aliquota contributiva previdenziale, pensando così di scoraggiare l’uso dei contratti atipici, col rischio però che a pagarne il prezzo effettivo siano gli stessi giovani. Meglio agire sui contributi sociali a carico delle imprese per garantire effettivamente, a chi non gode di un contratto "standard", i diritti universali alla maternità, alla malattia, agli assegni familiari, a un’indennità di disoccupazione degna di questo nome. E ancora, ci si potrebbe confrontare su qualche messa a punto normativa, non per cancellare, ma per evitare l’abuso di alcune tipologie contrattuali. Come, ad esempio, prevedere che sia sempre vietato per i collaboratori svolgere la loro opera all’interno delle aziende o che nessuna indicazione di orario possa vincolarlo o ancora farsi spiegare quei mille trucchi ai quali ricorrono le false cooperative nelle quali si annida lo sfruttamento. Infine, come evitare che anche l’apprendistato – strumento chiave per l’ingresso dei giovani – venga utilizzato solo come forma di risparmio sul costo del lavoro e abbia invece un robusto e strutturato contenuto di formazione.Ora che la trattativa è stata avviata sui binari del confronto, non bisogna aver timore di aprirsi ai contributi esterni. Affrontando finalmente anche i convitati di pietra.