Dipendenti sempre più attivi sulla Rete: danno visibilità al proprio posto di lavoro, difendono la propria organizzazione dalle critiche esterne e si comportano come veri e propri 'advocate', sia online sia offline. Una nuova indagine targata Weber Shandwick, la multinazionale leader nel settore delle relazioni pubbliche, infatti, ha identificato un fenomeno in grande ascesa nell’era digitale: l’attivismo dei dipendenti negli ambienti sociali.Si stima che in Europa quasi uno su cinque sia un dipendente attivo, mentre un buon 32% ha un grosso potenziale nel poterlo diventare. Le aziende dispongono pertanto oggi di un’enorme opportunità per capitalizzare questo importante patrimonio di advocacy o rischieranno di perdere un nutrito gruppo di supporter. Nella peggiore delle ipotesi, trascureranno i detrattori che possono seriamente danneggiare la reputazione dell’azienda.“Il fenomeno dei dipendenti attivi - afferma
Leslie Gaines-Ross, chief reputation strategist di Weber Shandwick - non deve essere sottovalutato. È molto importante per i ceo identificare e riuscire ad attivare tutti coloro che mostrano già una certa predisposizione ad appoggiare l’organizzazione per cui lavorano. Questo è particolarmente vero per le aziende europee. Abbiamo appreso dalle conversazioni con i nostri clienti che il coinvolgimento dello staff è una priorità delle loro agende e sarà sempre più la strada da seguire anche in futuro”.Weber Shandwick, in partnership con Krc Research, ha condotto la ricerca
Employees Rising: Seizing the Opportunity in Employee Activism. Con un sondaggio online su un campione di 2.300 dipendenti d’azienda di 15 diversi Paesi del mondo, lo studio esplora il fenomeno dell’attivismo dei dipendenti, con il fine di aiutare le aziende a capire cosa occorre mettere in pratica per intercettare e cavalcare questo trend. Come il top management ormai ben sa, l’impatto dei social media sulla reputazione di un’azienda è un tema conosciuto e molto dibattuto. Ma ciò che alcune aziende ancora non comprendono a pieno è quanto siano cruciali i social media nel coinvolgimento dello staff e quanto sia possibile fare per alimentare l’attivismo dei dipendenti.Ecco alcune dichiarazioni degli intervistati che, da sole, bastano a far luce sul fenomeno: il 43% pubblica sui social messaggi, foto o video inerenti all’azienda per cui lavora; il 33% ha condiviso un commento positivo sulla propria azienda; l'11% ha condiviso online critiche o commenti negativi sull’azienda; il 10% ha pubblicato online qualcosa sull’azienda, di cui poi si è pentito.E alcune aziende stanno cavalcando il trend. L'indagine ha rivelato che in Europa il 24% delle aziende incentiva il proprio staff a pubblicare e a condividere sui social notizie inerenti il proprio posto di lavoro.Questa forma di incoraggiamento alla condivisione negli ambienti sociali ha un fortissimo impatto tra i dipendenti, stimolandone l’advocacy. Per esempio, le persone che lavorano per aziende che incoraggiano la condivisione sui social sono più propense (+51%) a consigliare ad altri i prodotti o i servizi dell’azienda stessa. Il report fornisce ampia dimostrazione dei benefici che si possono ottenere per l’organizzazione ed esempi del modo in cui farlo.E, per comprendere le radici di questo fenomeno, è importante riconoscere lo stato di disorientamento in cui oggi spesso si trovano i dipendenti di un’azienda.Ma quali sono le cause? Innanzitutto, significativi cambiamenti organizzativi: più di 8 intervistati su 10 (84%) ha recentemente assistito a grossi cambiamenti nell’azienda per cui lavora (avvicendamenti nel management, licenziamenti, fusioni o acquisizioni, crisi di mercato). Ma anche inefficace comunicazione interna: solo il 46% dei dipendenti intervistati è in grado di descrivere ad altri cosa faccia esattamente la propria azienda e quali siano i suoi obiettivi.Poi, incide il debole coinvolgimento dello staff: solo il 28% dei dipendenti europei si sente profondamente coinvolto dall’azienda per cui lavora. E questo fenomeno non stupisce, visti i grandi cambiamenti spesso non affiancati da una buona comunicazione interna. Inoltre, i dipendenti stanno sulla difensiva e spesso agiscono 'in caso di urgenza' per prendere le difese dell’organizzazione. Il 60% dei dipendenti europei intervistati dichiara di aver difeso la propria organizzazione da critiche esterne da parte di familiari o conoscenti, oppure provenienti da un sito Internet, un blog o un organo di stampa.Utilizzando il modello Weber Shandwick sull’attivismo dello staff, tutti gli intervistati sono stati classificati in base alle loro azioni dichiarate nei confronti dei propri datori di lavoro, siano esse di supporto o di critica. Il modello identifica, quindi, sei distinte tipologie di dipendenti europei: 'preattivi' (32%), 'proattivi' (18%), 'inattivi' (20%), 'detrattori' (13%), 'reattivi' (10%), 'iperattivi' (7%). Lo studio comprende, poi, una serie di suggerimenti che delineano una strategia e una tattica da mettere in pratica nel lanciare un programma di comunicazione interna per ciascuna delle sei tipologie di dipendenti, identificati sulla base di 5 semplice domande.“Internet e i social media stanno cambiando le regole della comunicazione, restituendo ai dipendenti una voce amplificata. Questo è particolarmente vero per gli italiani, una popolazione che fa ampio uso dei social media: il 92% degli intervistati italiani ha un profilo sociale personale contro l’88% della media europea", commenta
Linda Bulgheroni, managing director di Weber Shandwick."Se paragoniamo i dati dell’indagine relativi al mercato Italia con quelli dell’Europa, ci colpisce infatti - sottolinea - un potenziale di advocacy ancora più grande nel nostro paese (36% di dipendenti 'preattivi' contro 32%), ma tuttavia è inferiore la percentuale di 'proattivi', cioè quelli che già compiono tutte le azioni possibili di supporto all’organizzazione: 12% contro 18% europeo"."Se consideriamo poi la situazione del mercato italiano, dove il 92% degli intervistati italiani contro l'84% degli europei dichiara di aver assistito recentemente a grossi cambiamenti sul posto di lavoro, si evince che in Italia ci sia un’urgenza maggiore di presidio del fenomeno, ma anche maggiori opportunità di intervento”, conclude.