Come spezzare l’ingranaggio di cui ogni guerra si alimenta? È la domanda che ci accompagna anche in questo XXI secolo. Una domanda che non ci siamo lasciate alle spalle con la fine del sanguinoso “secolo breve”. Credevamo di avercela fatta, che la democrazia costituzionale col suo carico di diritti ed eguaglianza, e un ordine internazionale basato sulla limitazione delle sovranità nazionali avessero inaugurato una nuova era, fondata sulla pace e sul rispetto della persona umana. E invece no, le guerre non solo non si sono ridotte, ma anzi imperversano, investendo anche l’Europa.
Ed ecco riprendere forza un’idea antica. Nella tradizione occidentale, se il potere è maschile, la giustizia, quale composizione dei conflitti, e la pace, sono femminili, come ci mostrano l’iconografia e le arti. Pensiamo al celebre ciclo di affreschi di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena o a quello di Giotto nella Cappella Scrovegni di Padova. Un’idea che, di fronte al terribile scontro tra i nazionalismi emerso alla fine del 1800 e poi esploso con la Prima guerra mondiale, vide i movimenti delle donne, allora in lotta per ottenere il diritto di voto, in prima linea per la pace. Che la speranza di pace sia stata nutrita dall’attivismo delle donne, ce lo ricordano testi ormai classici di grandi autrici del 1900, come “Le tre ghinee” di Virginia Woolf, o l’intensa corrispondenza tra Simone Weil e Joë Bousquet, poeta e grande invalido di guerra, e ancor più il suo visionario “Progetto di una formazione di infermiere di prima linea”.
Che le donne possano scardinare l’ingranaggio del potere maschile di cui ogni guerra si alimenta, non è però soltanto un’idea o una speranza. Il collegamento tra pace ed empowerment femminile non è poi così acrobatico, se solo si considerino alcuni dati ricavabili dalla storia che mostrano: a) la propensione alla guerra dei regimi autoritari; b) la tendenza dei regimi autoritari a discriminare e marginalizzare le donne; c) il legame tra la lotta dei movimenti delle donne per l’eguaglianza e la lotta per la pace, che connota il XX secolo.
Tutto ciò implica il passaggio dalla visione delle donne come vittime della violenza e dei conflitti armati (visione che non deve essere certo accantonata), alla visione delle donne come possibili artefici delle decisioni politiche, anche in contesti di guerra. Una impostazione che è stata fatta propria dalle Nazioni Unite, con la risoluzione n. 1325 del 2000, che afferma tra l’altro che “spetta agli Stati Membri di assicurare l’incremento della rappresentazione delle donne in tutti i livelli di adozione delle decisioni nelle istituzioni e nei meccanismi nazionali, regionali e internazionali per la prevenzione, la gestione e la soluzione dei conflitti”. Nonché dal Parlamento europeo, con la Risoluzione sulla situazione delle donne nei conflitti armati e il loro ruolo quanto alla ricostruzione e al processo democratico nei paesi in situazione di post-conflitto (2005/2215(INI)), che prende le mosse dal “fatto che la storia ha dimostrato che sono soprattutto gli uomini a dedicarsi alla pratica della guerra e che pertanto la particolare propensione delle donne al dialogo e alla non violenza potrebbe contribuire in modo molto efficace a prevenire e a gestire pacificamente i conflitti”, per rilevare “il ruolo positivo che le donne svolgono nella risoluzione dei conflitti” e chiedere “alla Commissione e agli Stati membri di assicurare un'adeguata assistenza tecnica e finanziaria a sostegno dei programmi che consentano alle donne di partecipare pienamente alla condotta di negoziati di pace e che conferiscano alle donne potere nella società civile nel suo complesso”.
Ad illustrare il legame tra attivismo dei movimenti delle donne e affermazione dei valori pacifisti è dedicato un libro appena uscito, che ho curato con Marilisa D’Amico e Costanza Nardocci, “Women and Peace. The Role of Women and Women’s Civil Society Organizations in Peace Processes” (Franco Angeli, 2024). Le esperienze presentate nel volume, grazie al contributo di studiose e attiviste di molti paesi (Afganistan, Bosnia, Colombia, Messico, Palestina, Ruanda, Siria, Sudafrica, Tunisia, Turchia, Vietnam), ci mostrano che le donne, nonostante la formale marginalizzazione da parte degli attori politici “ufficiali”, sono spesso riuscite, sorprendentemente, verrebbe da dire, a svolgere un ruolo nei processi di pace.
E che ciò è avvenuto soprattutto quando l’attività delle donne è stata nutrita dalla cultura della solidarietà femminile e dalla capacità di interagire con altri agenti della società civile. Mentre, al contrario, “questi casi di studio chiariscono che la sostanziale esclusione delle donne dai ruoli formali nella negoziazione o mediazione dei conflitti, o anche nei processi di costruzione della pace guidati dalle Nazioni Unite, ha privato questi sforzi di una risorsa vitale che potrebbe offrire una visione più creativa e spingerli in nuove direzioni”, come scrive nella premessa la femminista statunitense Kathryn Abrams, docente a Berkeley. In definitiva, poco rileva la controversa questione se l’“attitudine” pacificatrice delle donne si basi sull’eredità psicologica della fondamentale differenza biologica tra i sessi o se si radichi in una dimensione sociale e culturale quale espressione del “genere”.
Entrambe le prospettive convergono nel senso che un mondo più femminilizzato sarebbe un mondo più pacifico e giusto. E in questa direzione vanno le esperienze concrete, fatte di persone e associazioni, come gli studi raccolti nel volume dimostrano. A testimoniarci che un altro mondo è possibile.
Docente di Diritto pubblico all'Università di Siena, saggista