lunedì 27 maggio 2024
L'attivista, compagna di Mandela e prima sindaca non bianca di Città del Capo: «Sono state sette volte in prigione, ora prego perché le prossime elezioni non si svolgano nella violenza»
Un ritratto di Theresa Salomon

Un ritratto di Theresa Salomon

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Attivista di primo piano e lottatrice per i diritti e le libertà, Theresa Solomon ha incarnato per molti anni la lotta contro il regime razziale e segregazionista dell’apartheid in Sudafrica. Ha guidato marce e mobilitato donne e giovani, finendo in prigione per sette volte. E anche quando è diventata la prima sindaca non bianca di Città del Capo e poi ambasciatrice in Tanzania e Canada, viaggiando per il mondo con Nelson Mandela, non ha mai smesso di difendere i diritti di chi è rimasto ai margini. Classe 1945, Theresa è ancora oggi una donna piena di energia e di grande lucidità, anche nel denunciare le incongruenze e i fallimenti di una classe politica che ha tradito molte promesse e attese. E a trent’anni dalle prime elezioni libere vinte da Nelson Mandela e dall’African National Congress (Anc), traccia un quadro in chiaroscuro del suo Paese.

Ma cominciamo dall’inizio. Lei è stata protagonista di una parte importante della storia recente del Sudafrica. Durante il regime dell’apartheid è stata attivamente impegnata nel rivendicare diritti, riforme, leggi uguali per tutti…

Voglio innanzitutto dire quello che ho vissuto e che racconto riguarda non solo me, ma moltissime donne che hanno condiviso queste lotte. Già nel 1956, circa 20 mila donne avevano marciato verso l’Union Buildings di Pretoria per protestare contro il sistema dell’apartheid. Quella data, il 9 agosto, è diventata la Giornata nazionale della donna in Sudafrica. Ma il contributo delle donne e la loro voce sono stati sempre troppo sottaciuti.

Nel 1975 si è unita alla Black Women’s Federation. Quanto è stato difficile far sentire la vostra voce? Quali le principali rivendicazioni?

Far parte della Federazione mi ha insegnato innanzitutto a sentirmi orgogliosa di essere nera. Ne avevamo quasi vergogna, a causa del sistema che opprimeva le persone non bianche. In quel periodo, si era la voce degli inascoltati, specialmente delle donne senza voce. Ci battevano - e questa lotta è valida ancora oggi - perché le donne fossero protette dalla legge. Eravamo discriminate non solo dal regime, ma anche dagli uomini. Molte non avevano neppure consapevolezza dei loro diritti. A quel tempo, l'attivismo per me era qualcosa di inevitabile. Eravamo coinvolte nel rovesciare il sistema dell'apartheid e nel chiedere riforme, leggi, servizi e una migliore qualità della vita per tutti. La posta in gioco era diventare finalmente liberi.

Per questo lei è ha pagato un prezzo molto alto ed è finita più volte in carcere…

La gente mi diceva: “Sei sempre dentro e fuori dalla prigione, che ne sarà di tua figlia?”. Rispondevo che quello che facevo non era solo per mia figlia, ma per tutti i bambini del Sudafrica. Dovevamo cambiare il sistema per garantire che i nostri figli potessero avere una vita e un futuro migliori. Sono stata anche in isolamento e non lo auguro a nessuno.

Theresa Salomon

Theresa Salomon - .

Le donne hanno avuto un ruolo molto importante nella lotta di liberazione?

Sono state principalmente le donne a organizzare e guidare le marce e a portare avanti molte istanze e rivendicazioni. Al contempo, garantivano la sopravvivenza delle loro famiglie e facevano un lavoro meraviglioso nelle comunità. Cucinavano per i loro bambini, ma anche per i detenuti, e si assicuravano che il cibo arrivasse sempre in prigione. Hanno manifestato per i diritti, per gli affitti, per la scuola... E hanno continuato a preparare cibo per i bambini poveri delle township. Anche oggi, durante il periodo del Covid, ad esempio, c’erano solo donne impegnate ad allestire cucine per sfamare le persone. Ma non sono abbastanza riconosciute.

Sono passati esattamente trent’anni dalle prime elezioni libere vinte da Nelson Mandela. Che cosa ricorda in particolare di quei giorni?

L’Anc stava per arrivare al potere e si trattava di affrontare anche il tema del razzismo. Molte persone la vedevano come un'organizzazione per i sudafricani neri. Dovevamo cambiare quella mentalità. Molti avevano paura. I bianchi facevano scorte di cibo, perché non sapevano cosa sarebbe successo. Molti avrebbero voluto andarsene. Quello che dicevamo, allora, era: “Restate qui e vediamo insieme come passare da un sistema di oppressione a un sistema che permette a chiunque di avere una vita buona, indipendentemente dalla razza”. Questo era il lavoro che dovevamo fare per cambiare innanzitutto il modo di pensare e scardinare i pregiudizi inculcati con l’indottrinamento dal sistema dell'apartheid. Un lavoro molto, molto duro.

Ancora oggi, però, si vedono non solo atteggiamenti razzisti, ma anche attacchi xenofobi contro i migranti. Perché?

Purtroppo l’Anc non è riuscita ad andare a fondo su questa questione. Il razzismo è ancora radicato. E la xenofobia è una sciagura. Dietro, però, ci sono anche fattori socio-economici e politici. Le difficoltà economiche, gli alti tassi di disoccupazione e l’accesso limitato ai servizi di base accrescono le tensioni e contribuiscono a far diventare i migranti dei capri espiatori. Inoltre, la retorica politica può esacerbare i sentimenti xenofobi per vari motivi, tra cui distogliere l’attenzione dalle questioni interne. Affrontare la xenofobia richiede strategie globali che affrontino le cause profonde della disuguaglianza sociale ed economica, promuovano la comprensione e la tolleranza e garantiscano la protezione dei diritti di tutti gli individui, indipendentemente dalla loro nazionalità o dal loro status di migranti.

Dal 1995 al 1998, lei è stata prima vice sindaco e poi sindaco di Città del Capo. Quali sono state le principali sfide?

Innanzitutto, io stessa ho dovuto cambiare mentalità. Da attivista politica ero diventata un pubblico ufficiale. Non è stato facile. Ho cercato di mettermi a servizio della comunità e di rappresentare tutti i cittadini, non solo l'Anc. Ho dovuto affrontare grandi questioni come quella delle Olimpiadi del 2004: io non ero favorevole alla costruzione di tutte quelle strutture che poi sono rimaste effettivamente vuote, ma ormai eravamo in democrazia e questo significava anche attenersi alle decisioni del governo e del consiglio municipale. Soprattutto, però, ho cercato di essere d’esempio specialmente per i giovani. Ero il primo sindaco non bianco, potevo essere un modello e mostrare che le cose potevano cambiare. Ho lavorato molto per l’empowerment dei giovani e delle donne e per creare una nuova generazione di sudafricani. “Avete il potere nelle vostre mani per cambiare tutto questo”, dicevo sempre. Ma è una responsabilità che richiede disciplina. È stato fatto molto, ma non abbastanza.

Quanto è stato importante il ruolo delle donne nella riconciliazione del Sudafrica?

Durante le prime fasi del processo, non c'è stata davvero una partecipazione delle donne della classe lavoratrice. Erano implicate soprattutto quelle tornate dall'esilio e coinvolte dal governo, che effettivamente contribuirono all'avanzamento dello status delle donne in Sudafrica e alla nuova costituzione. Ma è stata soprattutto la Women’s League dell'Anc a coinvolgere le donne nei processi di riconciliazione dal basso.

Oggi il Paese può dirsi davvero riconciliato?

Il cambiamento è un processo. Come per la lotta contro il razzismo, è uno sforzo che deve essere fatto quotidianamente. Per questo però le persone devono conoscere i loro diritti e per cosa lottano. Ancora oggi abbiamo così tante persone povere nel nostro Paese, troppe. Abbiamo un grande problema di disoccupazione e una grave carenza di alloggi. In aree come Johannesburg, non c’è acqua per settimane. E l'acqua è un diritto. L'alloggio è un diritto. L'istruzione è un diritto. Non sono dei privilegi. La riconciliazione oggi sta anche in questo: nel creare un contesto migliore per tutti e far vivere le persone con dignità.

A fine maggio ci saranno le elezioni. Che cosa si aspetta?

Penso che l’Anc avrà un periodo molto difficile e che probabilmente per la prima volta dovrà governare in una coalizione. Sarà un'elezione molto appassionante. Una nuova sfida. E le aspettative sono grandi. Prego che non ci sia violenza, soprattutto nel KwaZulu-Natal e in altre regioni del Paese.

E che cosa si augura per il futuro del Sudafrica?

Diciamo spesso che i bambini sono il nostro futuro. Ma che cosa stiamo facendo loro? Il nostro dovere politico è assicurarci di parlare effettivamente ai giovani che stanno sempre di più sui marciapiedi e magari fanno uso di droghe o entrano nelle gang, perché non c’è lavoro. Questi sono alcuni dei problemi che il nostro governo deve affrontare come priorità. Io ormai non ho più alcuna responsabilità diretta, ma continuo a essere attiva nella mia comunità e a incontrare tanti giovani che hanno un disperato bisogno di modelli di comportamento. Sono convinta che dobbiamo pensare innanzitutto a loro.

La scheda

Trent'anni fa le prime elezioni libere vinte da Nelson Mandela

A trent’anni dalle prime elezioni libere vinte da Nelson Mandela nell’aprile del 1994, il Sudafrica, uscito dall’incubo dell’apartheid, resta ancora oggi un Paese segnato da gravi disuguaglianze, ingiustizie e discriminazioni. Certo, non ci sono più le leggi razziali. Ma povertà e marginalizzazione continuano ad avere troppo spesso il volto della maggioranza nera della popolazione, che subisce ancora oggi i contraccolpi di un passato di segregazione e di un presente fatto di politiche inadeguate a colmare l’abisso che separa chi ha troppo da chi non ha niente.

Paese di straordinaria bellezza e di laceranti contraddizioni, il Sudafrica si presenta con scenari naturali maestosi, un avanzato sistema di infrastrutture soprattutto turistiche, quartieri residenziali lussuosi e blindati, automobili costosissime... Poi, dietro l’angolo, sbucano enormi sacche di povertà e criminalità. Ancora oggi il Sudafrica è il Paese più diseguale al mondo, dove il 10% circa della popolazione possiede l’80% della ricchezza, mentre il 60% che ne detiene solo il 7%. E una persona su tre non ha lavoro.

I governi dell’African National Congress (Anc) che si sono susseguiti dal 1994, sempre con la maggioranza assoluta, hanno tradito molte promesse, non riuscendo a mettere in campo le riforme necessarie per rilanciare l’economia e offrire migliori opportunità a tutti, a partire dal sistema dell’istruzione che rimane estremamente carente e penalizzante per le fasce più povere della popolazione.

Anche il processo di riconciliazione e di guarigione della memoria, portato avanti con grande intensità nei primi anni - grazie anche al coinvolgimento di due grandi figure come Nelson Mandela e Desmond Tutu - non è stato poi implementato con la necessaria efficacia e capillarità. Oggi le ferite e le frustrazioni di una società ancora profondamente divisa rischiano di trasmettersi da una generazione all’altra, anche se non mancano esperienze di dialogo e pacificazione, che spesso vedono implicate le donne e che in più di una circostanza hanno evitato l’esplodere di violenze incontrollabili.

Un importante banco di prova della tenuta politica e sociale del Paese saranno le prossime elezioni generali del 29 maggio. Potrebbero essere le prime, in cui l’Anc non ottiene la maggioranza assoluta. Il che aprirebbe scenari inediti e per molti versi preoccupanti. Tuttavia, molti sperano che un maggiore confronto politico porti finalmente alla realizzazione di riforme sempre più necessarie e urgenti. Per il “Paese arcobaleno” - con una delle Costituzioni più avanzate al mondo e 11 lingue ufficialmente riconosciute - potrebbe essere l’inizio di una nuova pagina di storia.

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