Un ritratto di Shelly Lowe - .
Creare una rete di “scuole per la pace” e ridare vita alle lingue indigene nordamericane che racchiudono una cultura di pace al femminile. Shelly Lowe è impegnata su multipli fronti, tutti all’intersezione fra la valorizzazione del ruolo delle donne nei processi di riconciliazione e la difesa dei valori autoctoni americani. Come presidente del National Endowment for the Humanities, l’agenzia federale Usa che sostiene la ricerca e la conservazione del patrimonio culturale americano, ha lanciato vari progetti che mettono al centro la tradizione orale indigena e il ruolo delle donne nel trasmetterla. Come direttore esecutivo del Native American Program di Harvard ha incoraggiato la ricerca di vie per la riconciliazione fra i “colonizzatori” e le tribù estromesse dai loro territori. Come cittadina della nazione Navajo ha incoraggiato il perdono.
Molte identità, e un lavoro che sembra cercare punti comuni fra l’essere donna, l’essere indigena e la ricerca della pace. È così?
In questo momento sono molto concentrata sull’aspetto delle lingue indigene, perché contengono e trasportano i valori che mi stanno più a cuore. Nella storia degli indigeni le lingue sono state perdute sia estirpandole con la forza che attraverso una lenta erosione. I gruppi tribali in tutto il Paese continuano a sentire l'impatto della rimozione forzata dalle loro terre, delle leggi che vietavano l’uso e l’insegnamento delle lingue native e dell’assimilazione forzata dei loro bambini nei collegi per nativi americani. In molte comunità i nostri anziani sono gli unici madrelingua rimasti e le generazioni più giovani sentono la pressione di lasciarsi alle spalle la propria cultura per cercare opportunità economiche e formative. Ma quando perdiamo una lingua, perdiamo la conoscenza, la storia e i valori che vi sono radicati oltre alla nostra identità come comunità. E dimenticare queste lingue significa rinunciare a una cultura di pace che affida alle donne il ruolo di pacificatrici.
Quindi rivitalizzare le lingue indigene può far avanzare il lento e difficile processo di riconciliazione fra istituzioni “bianche” e nativi americani?
Sì, non è in alcun modo la soluzione completa alla riconciliazione, ma è un passo importante. Mi piacerebbe vedere più americani non-indigeni interessati ad apprendere le nostre lingue nelle università. Sarebbe un atto di rispetto per le popolazioni indigene, aiuterebbe la comprensione reciproca e porterebbe le nostre comunità a sentirsi più incluse e ad abbassare le barriere. Bisogna cominciare dai giovani.
Lei parla Navajo da sempre?
Sono cresciuta in una riserva Navajo, nelle zone rurali dell'Arizona nord-orientale, e la storia, le tradizioni e i valori che porto con me si sono formati lì. Ho assorbito molta cultura Navajo attorno al tavolo della cucina, in chiesa e dalle numerose famiglie che facevano parte della mia comunità, ma al contrario dei miei genitori non sono cresciuta sentendo parlare Navajo a casa. Per la mia generazione c’era un’enfasi sull’istruzione, il che significava parlare solo inglese sia a scuola che a casa. Ho conosciuto più a fondo la mia lingua da adulta e ho scoperto un tesoro di idee che non avrei mai compreso parlando solo inglese.
Può fare un esempio?
Conosco molte parole indigene che non hanno equivalente in inglese perché le idee che esprimono provengono da un modo di pensare diverso. Recentemente stavo provando a tradurre la parola “perdono” e mi sono accorta che non c'è un singolo vocabolo in Navajo per dirlo. Per descrivere l’idea devi prima spiegare ciò che è successo e cosa vuoi perdonare e poi dire qualcosa come: te lo toglierò di dosso e lo metterò da parte. Poi mi è venuta in mente un’altra frase in Navajo legata al concedere perdono che significa “girarsi verso di loro”. Indica i passi che devi compiere per poter tornare indietro e affrontare quello che devi perdonare. Non è un concetto astratto, dunque, la lingua illustra il percorso che bisogna compiere per arrivarci. Mi ha fatto capire che nel cammino di riconciliazione c’è un momento in cui arrivi a un incrocio e devi scegliere se andare avanti nella direzione che ti mantiene ferito e solo o voltarti e ricongiungerti agli altri. C’è una scelta che dobbiamo fare per guarire.
In questo caso, dalle ferite della colonizzazione?
Le ferite sono profonde e rendono la scelta difficile. Ed è qui che il recupero della figura femminile tradizionale può aiutarci. Nella nostra società sono le donne a fare le leggi e a scegliere i leader. Li incoronano conferendo loro l’emblema dell’autorità, le corna di cervo. Quindi un capo non può avere voce a meno che una donna gliela dia. Le donne della tribù partecipano attivamente alle discussioni sulla ricerca e il mantenimento della pace e guidano la comunità nel cammino verso il perdono e la riconciliazione. C’è un detto Navajo che dice che la pace è una trama intricata tessuta dalle mani che la scelgono. Spesso sono mani femminili.
Ora che lei stessa è una leader, a capo di un’influente agenzia federale, che cosa può fare per tessere questo tessuto?
Molto concretamente, da quando sono qui ho creato un ufficio responsabile dell’acquisizione di informazioni su chi si candida per ricevere sovvenzioni federali. Attraverso questo programma abbiamo finanziato vari progetti, come la creazione di un dizionario Penobscot, la documentazione dei dialetti parlati da diverse comunità di Mississippi Choctaw e lo sviluppo di un archivio della lingua parlata hawaiana. Stiamo anche lanciando un progetto per il recupero delle canzoni tradizionali indigene. Dobbiamo ricordare che i mondi in cui si muovevano i nostri antenati erano fatti di canzoni e di preghiere, che ci hanno avvolti in coperte di amore e saggezza. Riportarle in vita ci permette di proseguire il cammino rafforzati dall’amore e dalla saggezza di tutti. Mi sono anche arrivate proposte di sovvenzioni per creare una rete di scuole per la pace. Ci sono varie istituzioni negli Stati Uniti dedicate allo studio e alla soluzione dei conflitti, ed esiste anche un movimento che promuove l’educazione alla pace già dalle elementari. Mi piacerebbe vedere nascere una scuola per la pace per i giovani fondata sui protocolli di pace indigeni e sulla figura della donna, spesso la madre, come guida della comunità verso conversazioni di pace che non passano attraverso metodi coercitivi ma attraverso l’ascolto reciproco e la persuasione.