martedì 21 maggio 2024
Nipote di un re, candidata al Nobel per la pace, ha scelto di restare nell’Emirato e di dialogare con i taleban: «È l’unica strada, l’alternativa è arrendersi alla guerra»
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Nipote di un re, figlia del popolo. Mahbouba Seraj è entrambe le cose: una donna che dalla dinastia reale ha ereditato un profondo amore per l’Afghanistan e che da oltre mezzo secolo difende la dignità degli afghani e delle afghane. Hanno cercata di fermarla prima i comunisti, poi i signori della guerra e ora per i taleban è un’osservata speciale. Candidata al Premio Nobel per la pace nel 2023, è la fondatrice dell’Afghan women’s network, rete di organizzazioni che gestiscono strutture di protezione per le vittime di violenza. Qualche anno fa le associazioni aderenti erano oltre 120, ora sono appena 27. La stessa Mahbouba, classe 1948, una massa di capelli bianchi, sorriso dolcissimo e piglio deciso, in questi momento ospita a casa sua a Kabul una ventina di ragazze in fuga da mariti o famiglie violente, che gli stessi taleban raccolgono in condizioni disperate dalle strade e consegnano a lei perché stiano al sicuro. La abbiamo incontrata sabato scorso a Verona, a margine dell’Arena di pace, durante la quale ha interloquito con papa Francesco.

Signora Seraj, lei ha scelto di restare in Afghanistan nonostante il passaporto americano. A Kabul è impegnata in un dialogo continuo con i taleban. Non tutti sono d’accordo e chiedono invece di isolare l’Emirato islamico. Qual è la sua opinione?
È molto semplice. Intrattenere o meno un dialogo con i taleban è la scelta tra avere una strada per la pace o non averla. L’unico accesso alla pace è dialogare. L’alternativa è il nulla.

A distanza di due anni e 9 mesi dalla caduta di Kabul, nell’agosto 2021, ha ottenuto qualche risultato?
No, non ho niente in mano. Ma la posta in gioco è alta: sto cercando di dare voce alle donne che chiedono libertà, dignità e pace. Lotto non solo per le donne, ma per tutti: uomini, bambini, famiglie. Per il mio Paese. Negli ultimi 45 anni abbiamo conosciuto guerre, distruzioni, violenza e nessuno ha parlato del bene dell’Afghanistan. I taleban sono qui, sono al potere, il mondo non ha trovato il modo di rimpiazzarli e dunque dobbiamo fare i conti con loro. È la nostra unica speranza. Vogliamo un’altra guerra, ricominciare a ucciderci tra noi?

No, certo. Ha creduto nella democrazia imposta dall’alto che l’Afghanistan ha conosciuto tra il 2001 e il 2021, con l’occupazione occidentale?
No, perché ne vedevo la fragilità. Certo, alle donne sono state date opportunità di istruzione e di emancipazione, ma la democrazia di cui abbiamo bisogno deve nascere da noi. La democrazia imposta dall’Occidente ha dato alla gente false speranze e false sicurezze. In vent’anni non abbiamo imparato a rispettarci e fidarci l’uno dell’altro. E questo è il punto in cui siamo.

Le protegge le donne vittime di violenza. È aumentato il loro numero dall’instaurazione dell’Emirato islamico?
No, veramente no. E non perché la violenza sia scomparsa, al contrario, ma perché non ci sono più istituzioni che se ne facciano carico. Non ci sono più Commissioni per i diritti umani, né magistrate, né organismi che si prendano cura delle donne. I taleban stanno deliberatamente distruggendo tutto ciò, passo dopo passo, perché per loro le donne sono invisibili, inesistenti se non per cucinare e fare figli. È una realtà che mi terrorizza, ma è così.


Restando in Afghanistan corro rischi,
ma non ho paura. Se qualcuno
vuole sbarazzarsi di me, lo può fare
Ma l’unico modo per uccidermi
è costringermi a interrompere
il mio lavoro a fianco alle donne

Lei è tra le poche donne che i taleban ascoltano: è per la sua età o perché è nipote del re illuminato Amanullah Khan?
Credo che ciò avvenga per la mia età, per il mio status e per la storia della famiglia a cui appartengo. Ma più di tutto mi rispettano per l’amore del mio Paese. I taleban sanno che la maggior parte del mio popolo e soprattutto le donne mi amano, sanno anche che ho scelto di restare in Afghanistan per lavorare per loro. Il futuro del mio popolo è la mia priorità.

Pensa che la candidatura al Nobel per la pace, nel 2023, l’abbia aiutata nel suo lavoro per i diritti delle donne?
Non credo, tutto è andato così in fretta. Quando ho saputo di essere tra i candidati, ho pensato che fosse incredibile. Il Nobel è andato effettivamente a un’altra persona (l’attivista iraniana Narghes Mohammadi, ndr) e ho cancellato immediatamente la questione della mia testa, ma nello stesso tempo ho pensato che forza avrebbe potuto avere quel riconoscimento per le donne dell’Afghanistan, per la battaglia che sto portando avanti per loro. Non è successo, punto e a capo.

Lei ha partecipato, con altre 5 donne, ai negoziati di Oslo nel 2022, di fatto l’unico tentativo ufficiale dopo la caduta di Kabul l’anno precedente. Ma quell’incontro è fallito. Perché?
Non lo so, ma gli Usa e l’Europa lo sanno. Penso che sia stato deciso prima che non dovesse funzionare.

Le donne sono assenti da negoziati ufficiali, lo abbiamo visto non solo per l’Afghanistan, ma anche per l’Ucraina e il Medio Oriente. Qual è la conseguenza di questa assenza?
Le donne sono tenute fuori dai negoziati perché gli uomini ne sono impauriti, o non credono nelle loro capacità, o non le rispettano. Questa non ha alcun senso. La pace effettiva non può accadere senza il coinvolgimento delle donne. E, direi, dell’intera società.

Signora Seraj, lei corre rischi restando a Kabul?
Sì. Ma non ha paura e non perché io sia coraggiosa o al contrario incosciente. Ho sempre pensato che armi, guardie del corpo e auto blindate non servano a nulla. Semplicemente, vivo in un mondo in cui se qualcuno si vuole sbarazzare di me, lo può fare. Possono mettermi in prigione, per esempio. E poi in fondo non ho nulla di cui essere spaventata. L’unico modo per uccidermi è quello di costringermi a interrompere il mio lavoro. Questo sì, mi distruggerebbe.

Le donne afghane lottano per non scomparire. Cosa può fare il mondo per loro?
Le donne del mondo possono aiutarsi l’un l’altra in un modo che non è mai accaduto finora. Non vogliamo combattere contro gli uomini, ma dobbiamo reclamare i nostri diritti e alzare le nostre voci anche per le sorelle che non possono farlo.

Cosa succede oggi alle donne in Afghanistan?
Ci sono giorni in cui non mi alzerei dal letto dalla disperazione. La sfida è enorme e non vedo i risultati che vorrei. Non ottengo l’istruzione femminile, e fa male vedere le nostre meravigliose e coraggiose ragazze afghane chiuse in casa, senza futuro. È uno spreco di talenti che a volte mi fa piangere. Discuto di questo con i taleban, ne parlo in tutto il mondo, ogni volta e ovunque io ne abbia l’opportunità. Non sono l’unica, molte persone e soprattutto molte donne in tutto il mondo stanno lottando per questo.

Dove trova la forza e la speranza per continuare?
Credo in Allah e penso che si prenderà cura di me e delle mie sorelle afghane.

C’è una donna a cui si ispira?
Mia madre: era una donna piccola e gentile, dolce e umile. Ha sempre lavorato, manteneva la famiglia. È stata la nostra forza, mia e di mia sorella, era emancipata ed è stata il mio modello.

Con il Papa, sabato all’Arena di pace di Verona, ha parlato di una diversa leadership per il mondo. Come la vede?
Papa Francesco ha parlato di una leadership inclusiva e partecipativa e ha assolutamente ragione. Ma ho osservato che in ogni parte del mondo, quando c’è un cambiamento, è una persona che lo conduce. Gandhi era solo, e molta gente lo ha seguito. Credo in papa Francesco, nel mondo non ci sono molti uomini come lui, e il dovere di quei pochi è fare il possibile perché il pianeta non si autodistrugga, come è avviato a fare. In ogni continente ci sono guerre, movimenti forzati di persone. Ci sono pochi donne e uomini di pace come papa Francesco: possono essere soli, ma hanno un compito storico. La pace per Kabul e per il mondo.

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