lunedì 6 maggio 2024
L’attivista guida una iniziativa di donne per creare una Commissione per il dialogo. «Sull’isola il processo di pace è in stallo. In 50 anni tante atrocità e violenze, ma nessuno ne ha mai parlato»
Un ritratto dell'attivista Magda Zenon

Un ritratto dell'attivista Magda Zenon - .

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Vent’anni fa esatti è entrata nell’Unione europea, ma oggi come allora resta un’isola tagliata a metà. Con una storia recente tormentata dalle tensioni e dalle violenze tra le due comunità etniche principali, quella greco-cipriota e quella turco-cipriota, da cinquant’anni è attraversata nel mezzo da una frontiera. Dopo il lungo dominio ottomano e l’occupazione britannica, Cipro ha visto acuirsi le violenze inter-etniche negli anni seguiti all’indipendenza del 1960, con i turco-ciprioti che hanno pagato il costo più alto in termini di vittime. Da allora più volte è stato prorogato il mandato della forza di sicurezza Onu per il mantenimento della pace sull’isola. Reagendo a un colpo di stato sostenuto da Atene e dalla dittatura militare dei colonnelli, nel 1974 la Turchia ha invaso e occupato un terzo dell’isola. Greco-ciprioti e turco-ciprioti sono fuggiti in direzioni opposte, i primi verso il Sud greco, gli altri verso il Nord turco, lasciandosi alle spalle le loro case e le loro vite. Da mezzo secolo vivono separati.

Vive su un’isola divisa in due, là dove l’ultimo muro d’Europa ancora oggi separa alture, spiagge, litorali, ma anche vicoli e vecchi palazzi della capitale, a una manciata di chilometri dalle coste di Siria e Turchia. Da Cipro provengono suo padre e sua madre, ma Magda Zenon è arrivata nella terra della sua famiglia solo da adulta. È invece nata e cresciuta nel Paese delle separazioni e delle divisioni per eccellenza, il Sudafrica dell’apartheid. Oggi è un’attivista per la pace, il dialogo e i diritti umani, convinta che le donne, come gli altri gruppi sociali da sempre tenuti fuori dalle “stanze dei bottoni”, debbano essere parti attive dei processi decisionali e dei colloqui di pace, se si vogliono raggiungere buoni accordi, che poi durino.

Prima il Sudafrica, poi Cipro. Come hanno influito sul suo interesse per la ricomposizione dei conflitti questi due contesti così segnati dalle divisioni?

Il fatto di avere vissuto nel Sudafrica dell’apartheid è fondamentale per la persona che sono oggi. Ricordo che a 12 o 13 anni ero già molto consapevole dell’ingiustizia attorno a me e ricordo di come apertamente la denunciavo. Non riuscivo a stare zitta, il senso di iniquità mi travolgeva, prendevo posizione sempre. Quando sono arrivata a Cipro è stato lo stesso. Ero curiosa di vedere la Green Line (la linea di separazione tra il Nord dell’isola dei turco-ciprioti e il Sud dei greco-ciprioti, ndr), perché allora oltrepassarla non era così semplice. Di nuovo, percepivo l’ingiustizia. Essere al fianco di chi è lasciato ai margini è sempre stato parte di me.
Quando scoppia una guerra o serve negoziare la pace, ai margini spesso restano le donne.

Cosa ostacola la partecipazione femminile ai tavoli di trattativa?

Credo che la sfida più grande sia posta dal sistema etnico-patriarcale. Cioè tutto è pensato in termini di appartenenza etnica e di genere maschile e ogni altra forma di diversità o di gruppo marginale è spinta fuori dal quadro. Un altro ostacolo è la struttura stessa dei negoziati di pace, che è verticistica. La persona che entra nella stanza dei bottoni, di solito il negoziatore o il presidente, è un uomo. A lui spetta l’ultima decisione. Non si tratta di un gruppo di individui di provenienze diverse, non c’è una struttura orizzontale. Quando poi si discute di pace e conflitti, si parla solo di coraggio ed eroismo maschile, mentre sofferenza e dolore sono di solito cose da donne. Non si presenta mai un contesto generale, universale. Le donne come vittime e gli uomini come eroi. Cambiare la rappresentazione di chi soffre, anche questo significa essere parte delle trattative.

Che valore porta una mediatrice donna?

Non basta ci sia una donna, occorre che al tavolo ci sia una prospettiva di genere. Se si vuole un esempio, si osservi quando nei colloqui di pace si discute di sicurezza: si parla di frontiere, eserciti, scontri, ma non di sicurezza umana, non si parla di come mettere la popolazione in salvo, né di sicurezza alimentare. La questione della sicurezza umana è uno dei punti fondamentali della prospettiva di genere. Dobbiamo tenere le persone al sicuro. Portare in trattativa le donne e l’agenda sulla loro sicurezza significa nei fatti includere tutti.

Lei ne fa anche una questione di visibilità. Quanto conta vedere le donne nei processi decisionali?

Servono mediatrici al tavolo delle trattative per cambiare l'immagine che si ha davanti agli occhi. È davvero importante per non continuare a osservare uomini in completo grigio prendere decisioni. A Cipro, dopo molte pressioni, si è cercato di provvedere istituendo nel 2015 un Comitato tecnico sull'uguaglianza di genere. Ma si è solo spuntata una casella, il sistema patriarcale continua a manifestarsi.

A Cipro il processo di pace è in stallo. A questo tavolo sono sempre mancate le donne?

In cinquant’anni non si è mai stati davvero vicini ad affrontare i traumi della popolazione. Includendo le donne, invece, si affrontano le preoccupazioni delle persone. Quella che si sta promuovendo ora, e di cui anche io faccio parte, è un’iniziativa condotta da donne per istituire una commissione per la riconciliazione. Se non si fanno i conti con il passato, non si sarà mai pronti al cambiamento. Su quest’isola ci sono stati massacri, atrocità, stupri, ma nessuno ne ha parlato. All’epoca della guerra del ’74, l’unico riconoscimento del fatto che fossero avvenuti stupri è stata la modifica di una legge per consentire l’aborto alle vittime di violenza. Non si è tenuta alcuna discussione pubblica. Le donne non sono state incluse nel dibattito, il tema non è stato portato al tavolo.

Proprio di donne, pace, sicurezza e violenza di genere tratta una risoluzione simbolo dell’Onu, la numero 1325 del 2000. In più di vent’anni cos’è cambiato?

C’è stato sicuramente un mutamento, perché ora è parte della discussione generale il fatto che violenze e stupri contro le donne siano usati come armi di guerra. Il dibattito sul tema è una questione di grande rilievo, non trattata ancora con una sufficiente presa di responsabilità, ma un cambiamento c’è stato. Negli ultimi anni, molte reti di donne mediatrici sono sorte. Non sarebbe stato possibile senza la 1325. Dal 2000 si vedono poi più donne ai vertici delle Nazioni Unite. Dopo quella risoluzione, a capo della missione Onu a Cipro arrivò una donna.

È una donna anche la nuova inviata delle Nazioni Unite sull’isola, Maria Angela Holguin Cuellar, ex ministra colombiana. Per la ripresa dei negoziati cambierà qualcosa?

Sappiamo che è stata attiva nel processo di pace in Colombia e che ha giocato un ruolo fondamentale nel portare le parti al tavolo, comprese le Farc. È conosciuta per la sua disponibilità ad ascoltare la società civile. Non è solo il fatto che sia una donna, a far ben sperare è che porti a Cipro queste due qualità, e che sia inclusiva. Nel 2004 avevamo un piano di pace che è stato sottoposto a referendum. Nella Cipro del Sud (dove è stata respinto, ndr) molte delle persone che hanno votato contro la proposta erano donne, e la ragione è che non sapevano di cosa il piano parlasse davvero. Non erano state coinvolte. Se fossero state parte del processo decisionale o del dibattito collaterale, non sarebbe stato meglio?

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