L’autore di questo intervento è pubblico ministero presso il Tribunale di Milano e componente del comitato scientifico “Lo Strappo. Quattro chiacchiere sul crimine”.
Quanto coraggio ci vuole ad incontrare se stessi, quando tutto questo deve passare attraverso l’incontro con un altro che ci ha ammazzato l’esistenza? Credo di aver iniziato a pormi questa domanda solo 8 anni fa, accompagnando Marisa Fiorani, madre di Marcella di Levrano, uccisa dalla Sacra Corona Unita, ad un incontro al carcere di Opera con alcuni detenuti del Gruppo della Trasgressione, un tempo appartenenti alla criminalità mafiosa. Prima, nella mia testa, abitava solo il ricordo di poche parole che un ragazzo mi confidò – in un campo profughi a Novo Mesto quando entrambi avevamo 22 anni – per cercare di spiegarmi cosa avesse provato ad uccidere un proprio simile. Avevo del resto affrontato tutto il percorso universitario incentrando la mia attenzione esclusivamente sul reo. E anche durante la tesi di laurea quello che mi aveva più appassionato, nella mia indagine presso il Tribunale per i Minorenni, era il dilemma di optare tra una giustizia rigorosamente punitiva, e pertanto definita paternalistica, e una che – in quanto più remissiva – era più simile ai tratti materni. Avevo scelto di arruolarmi tra i fautori della prima tesi, salvo iniziare a ricredermi grazie a due eventi che come una benedizione hanno segnato profondamente la mia esperienza di vita: essere diventato padre e aver iniziato a camminare a fianco dei familiari delle vittime della criminalità organizzata.
Sono giganti, questi ultimi, ai quali la vita ha lasciato in pegno un macigno di dolore grande come una montagna. C’è stato un tempo, diverso per ciascuno di loro, durante il quale l’incontro con frammenti illuminati della Chiesa e della società civile ha offerto l’occasione per ricevere in dono scarponi e corde. Ma loro, quei doni, li hanno utilizzati non tanto per arrivare in cima alla montagna quanto per calarsi, ancora più in profondità, in quello che Dostoevskij definirebbe il sottosuolo dentro ciascuno di noi. Come Margherita Asta, che proprio in un passaggio del nostro documentario “Lo Strappo. Quattro chiacchiere sul crimine” identifica l’esatto momento in cui ha iniziato a dare un senso alla morte dei suoi due fratelli gemelli: alla prima udienza del processo ai mandanti della strage di Pizzolungo, quando decise di ritrovare i tratti dei loro volti, sia pure trasfigurati, dentro lo squallore di un album fotografico. E proprio quel momento l’ha portata poi a voler incrociare anche il volto di chi, quei fratelli insieme a sua madre, aveva annientato per sempre.
Il coraggio delle donne non è quello di affrontare il nemico in un campo di battaglia. Prende forma, quel coraggio, con Daniela Marcone quando supera gli orizzonti di un dolore strettamente personale e indicare con forza la necessità di costruire una memoria collettiva delle vittime delle mafie pugliesi. Passa, il coraggio delle donne, da Agnese Moro, quando rilegge il referto dell’autopsia eseguita sul corpo di suo padre per essere certa di non averne tradito la memoria andando ad incontrare chi aveva contribuito ad ucciderlo. Porta dentro di sé, il coraggio delle donne, il dono dell’accoglienza, capace – per loro stessa natura – di generare altra vita. È interessante che Paolo Setti Carraro abbia paragonato la sua esperienza di familiare di vittima di reato, attivo nei percorsi trattamentali in carcere, all’attività di una ostetrica che aiuta a far nascere l’uomo dentro un criminale. Prendendolo per mano. La giustizia riparativa ha bisogno delle mani di Marisa, Margherita, Daniela, Agnese e di tutte le altre donne che hanno tratto ispirazione dal loro coraggio. Ma ha bisogno anche delle mani di Paolo e di tutti gli altri uomini che hanno deciso di scongelare il proprio dolore per provare a farne qualcosa di diverso. La giustizia riparativa ha bisogno che le nostre mani si uniscano: per accompagnare quella danza – come nel quadro di Matisse – affinché sia in grado di restituire un poco di senso a tutto questo sangue versato e, come in una trasfusione vitale, generare esperienze di pace.