Il ritratto di Natasa Kandic - .
Nataša Kandić è stata definita “la Simon Wiesenthal dei Balcani” perché da oltre trent’anni si batte per assicurare alla giustizia i responsabili dei crimini commessi nell’ex Jugoslavia durante le guerre degli anni ‘90. Ma nel suo Paese, la Serbia, continua a essere presa di mira e vive sotto la minaccia costante di attacchi da parte degli estremisti delle varie fazioni. Molti la considerano infatti una figura scomoda per la sua ostinata ricerca della verità che in più occasioni l’ha portata a puntare il dito contro il suo stesso governo.
Nata nel 1946 nella città serba di Kragujevac (all’epoca Jugoslavia), di formazione sociologa, fin dagli albori della guerra nei Balcani Kandić ha iniziato a documentare i crimini commessi contro i civili dalle forze armate e dai gruppi paramilitari serbi nelle città occupate. Nel 1992 ha fondato il Centro per il Diritto Umanitario, una Ong che si occupa di raccogliere prove e testimonianze offrendo assistenza legale e sostegno alle vittime di violazioni dei diritti umani.
«I suoi report hanno consentito
Durante la guerra in Kosovo ha pubblicato una serie di rapporti che smentivano categoricamente le informazioni diffuse dalle autorità serbe: quegli stessi rapporti sarebbero stati utilizzati in seguito per formulare le accuse del Tribunale penale internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia. Ed è stata sempre lei, alcuni anni dopo, a reperire e a rendere pubblico il video-chiave del genocidio di Srebrenica, che ha fatto luce sulle responsabilità di alcuni esponenti del Ministero degli Interni di Belgrado nello sterminio e nell’occultamento dei corpi di oltre ottomila civili nelle fosse comuni.
Per il suo lavoro, Nataša Kandić ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali e nel 2003 è stata inserita nell’elenco degli “eroi d’Europa” dalla rivista Time.
Oggi è la coordinatrice di REKOM, la Commissione regionale per l’accertamento dei fatti relativi ai crimini commessi durante le guerre jugoslave. E nonostante gli attacchi e le minacce che continua a ricevere, non ha ancora rinunciato alla ricerca della verità.
Perché a circa tre decenni di distanza dall’accordo di pace di Dayton le relazioni tra i Paesi che facevano parte dell’ex Jugoslavia sono ancora così difficili?
Penso che in generale i rapporti non siano migliorati dopo Dayton perché la comunità internazionale e in particolare l’Unione Europea non hanno adottato un corretto approccio nei confronti della giustizia transizionale e non hanno favorito la nascita di istituzioni realmente democratiche. Il Tribunale dell’Aja è stato uno strumento molto importante ma è stato chiuso nel 2017 senza delineare alcuna strategia che potesse assicurare la giustizia alle vittime aprendo di conseguenza la strada alla riconciliazione. Si è limitato a trasferire i propri poteri ai tribunali territoriali, sebbene i funzionali locali avessero fatto presente di non essere pronti a un compito simile, semplicemente perché non avevano la competenza per perseguire i cittadini di altri stati. Ritengo sia stato un grave errore da parte della comunità internazionale, che in seguito ha anche perso gradualmente interesse nelle questioni balcaniche. E ciò è accaduto ben prima che scoppiassero nuove crisi come quella ucraina e quella mediorientale.
Le attività del Tribunale dell’Aja, limitatamente ai processi ancora in corso, sono state però trasferite al cosiddetto Meccanismo residuale per i tribunali penali internazionali.
Sì, ma si tratta di un organismo dotato di un raggio d’azione assai limitato il cui funzionamento dipende dalla buona volontà degli stati. In assenza di una strategia precisa e coerente per fare i conti con il passato e garantire giustizia alle vittime è impossibile creare stabilità e riconciliazione nei singoli paesi.
Quanto pesa il ruolo della società civile nella mancata riconciliazione?
Le faccio un esempio. Alcuni anni fa abbiamo raccolto oltre 550mila firme di esponenti della società civile per chiedere l’istituzione di una commissione sulle persone scomparse nei paesi dell’ex Jugoslavia ma purtroppo l’iniziativa ha riscosso scarsa attenzione da parte dei governi. L’azione della società civile senza il sostegno da parte della politica non basta da sola per cambiare le cose. Noi continuiamo a svolgere il nostro lavoro di documentazione e denuncia, a organizzare iniziative di sensibilizzazione sul passato e sull’importanza della memoria, nonché a contrastare la politica dello scaricabarile delle responsabilità e ovviamente il negazionismo. Ma finché la politica della memoria sarà monopolizzata da una certa classe politica non ci sarà spazio per avere davvero giustizia.
Che ruolo hanno avuto le donne nel processo di pacificazione dei Balcani?
Direi un ruolo molto importante. In generale le donne hanno più buonsenso degli uomini e sono più disposte a fare la pace che a dichiarare la guerra. Penso ad esempio alle Donne in Nero di Belgrado che si sono battute sempre per un’azione di verità e giustizia, alle madri di Srebrenica che da trent’anni lottano per la memoria di quel genocidio e alle tante donne kosovare che ho incontrato nel corso della mia vita.
«In generale le donne
Nel 2021 l’Alto rappresentante delle Nazioni Unite per la Bosnia Erzegovina ha promulgato una legge molto contestata che intende punire chi nega il genocidio. Qual è la sua opinione in proposito?
Esistono studi a riguardo che finora non hanno prodotto esiti molto confortanti. Personalmente credo che una legge imposta dall’alto senza un dibattito politico non possa risolvere il problema convincendo chi continua a negare quanto è accaduto. A mio avviso si rischia invece di favorire una giustizia selettiva. In Serbia il passato viene manipolato continuamente. Si continua ad esempio a ricordare l’inizio dell’attacco della Nato su Belgrado del 1999 senza fare alcuna menzione di quello che le truppe serbe avevano fatto prima in Kosovo. Nel mio Paese la negazione dei crimini di guerra e la glorificazione dei criminali condannati all’Aja continua a essere un problema serio, mentre in Bosnia la gente continua a sostenere che i soldati bosniaci si sono comportati da eroi durante la guerra nel tentativo di salvare i musulmani da orrori peggiori. E lo stesso accade anche in Croazia.
Può tracciare un bilancio di oltre trent’anni di attività in difesa dei diritti umani?
Nel dopoguerra, ai tempi dei processi all’Aja, in Serbia e in altri paesi ero molto ottimista e credevo davvero che sarebbe stato possibile ottenere finalmente giustizia. Poi, purtroppo, sono stata costretta a ricredermi e oggi sono molto più pessimista, perché non vedo più spazio per certe iniziative e col tempo è venuto meno un sostegno concreto dalla comunità internazionale. Mi chiedo ad esempio come si può pensare di creare un futuro condiviso per i Balcani se Croazia e Slovenia fanno parte dell’Unione Europea ma Bruxelles non consente l’attivazione di progetti congiunti con gli altri stati balcanici. Inevitabilmente ciò crea approcci differenti nei confronti della politica della memoria.
«Senza conoscere
Qual è stato il momento più difficile della sua carriera di attivista? Ha mai pensato seriamente di mollare?
In generale non ritengo che il mio sia un lavoro difficile. A volte mi sono trovata ad affrontare situazioni assai critiche ma mai abbastanza da spingermi a gettare la spugna e sono sempre andata avanti. Nel 2008, ad esempio, mi trovavo in Kosovo quando il parlamento di Pristina dichiarò l’indipendenza. Ero l’unica serba presente e al mio ritorno a Belgrado sono stata attaccata violentemente da alcuni politici del mio Paese. Qualcuno ha persino minacciato di farmi arrestare. Ciò che mi ha sorpreso negativamente sono stati però soprattutto gli attacchi da parte dei cittadini serbi, i quali non accettavano il fatto che io avessi preso parte a quella seduta del parlamento kosovaro denunciando pubblicamente i crimini commessi dalle forze serbe in Kosovo. Fu un momento molto difficile perché mi resi conto che ben pochi politici serbi erano disposti a mettere in discussione quanto era accaduto nel 1999 e ad accettare le colpe del governo di Belgrado. Finché continueranno a ripetere che le vittime sono i serbi non c’è alcuna speranza che si facciano davvero i conti con le reali responsabilità di quei fatti. E senza conoscere la verità sulle vittime non avremo mai una vera riconciliazione.
LA SCHEDA
La Serbia a fatica verso la Ue
ma guarda anche a Est (e alla Russia)
Molti dei cambiamenti politici auspicati in Serbia dopo la fine delle guerre degli anni ‘90 – soprattutto in termini di pluralismo democratico e di indipendenza del potere giudiziario – sono rimasti al momento soltanto una chimera. Nel 2012 il Consiglio europeo ha concesso a Belgrado lo status di candidato ma l’agenda politica verso un ingresso nell’UE fatica a fare progressi. L’ostacolo più duro da superare per l’integrazione della Serbia in Europa rimane la questione del Kosovo, la cui soluzione appare ancora lontana. Bruxelles ha lasciato intendere a più riprese che per l’adesione, oltre alle riforme e ai criteri previsti, è necessario risolvere la situazione generale di instabilità nella regione ma il governo di Belgrado continua a rifiutare il piano-UE sul Kosovo. Intanto sta crescendo però il malumore all’interno della società serba, come dimostrano le gigantesche proteste di piazza organizzate nei mesi scorsi. Le elezioni politiche del dicembre scorso hanno confermato i consensi al partito del presidente Aleksandar Vucic ma l’opposizione ha denunciato brogli e irregolarità in particolare nelle consultazioni per il rinnovo dell’amministrazione della capitale. Il consolidamento del potere di Vucic mantiene di fatto in bilico la posizione della Serbia sul palcoscenico internazionale. Il presidente ha sempre dichiarato di voler far entrare il Paese nell’UE e tiene aperte le trattative per l’adesione ma non ha mai smesso di guardare a Oriente: ha mantenuto stretti rapporti con Putin (la Serbia è ad oggi l’unico paese europeo che non ha mai adottato sanzioni contro la Russia dopo l’aggressione dell’Ucraina) e ha rafforzato le proprie relazioni con la Cina, siglando nell’ottobre scorso un accordo di libero scambio che apre le porte alle merci e alle imprese di Pechino.