La risoluzione 1325 del 2000 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite su Donne, Pace e Sicurezza illumina il cammino verso un futuro in cui le donne sono in prima linea nella creazione di una pace sostenibile. Questa risoluzione non solo riconosce l’impatto sproporzionato dei conflitti sulle donne, ma sottolinea anche il loro ruolo cruciale nella costruzione della pace. La democrazia non può permettersi che metà della popolazione non sia totalmente ed equamente coinvolta nel processo decisionale. La parità di diritti e l’uguaglianza devono diventare un focus principale della politica. La risoluzione dunque riafferma l’importante ruolo delle donne nella prevenzione e risoluzione dei conflitti, nei negoziati di pace, nella costruzione e nel mantenimento della stessa, nella risposta umanitaria e nella ricostruzione postbellica.
A livello globale, la ricerca si sta concentrando sempre più sugli effetti dei conflitti armati sulle donne e sul loro coinvolgimento nella ripresa del dopoguerra. La storia ci insegna, che oltre a violenza e distruzione, il conflitto genera nuovi spazi, meno legati agli stereotipati ruoli di genere, all’interno dei quali le donne hanno trovato maggiori opportunità economiche. È dimostrato che, durante e subito dopo un conflitto, la popolazione femminile assume ruoli socioeconomici più influenti e ha una presenza pubblica più ampia. Questi cambiamenti positivi per la società, tuttavia, se non valorizzati, potrebbero essere temporanei.
In Ucraina, ad esempio, uno dei Paesi di cui al momento mi occupo per lavoro, ci sono segnali che le donne stiano sempre più alimentando l’economia del Paese. Delle 36.000 piccole e medie imprese registrate nel 2023, il 51% è gestito da donne. Inoltre, l’Ucraina ha bisogno di un esercito di medici e psicologi che si prendano cura dei suoi veterani di guerra, tra cui migliaia di amputati e soldati traumatizzati. Molti, se non la maggior parte di questi operatori sanitari, sono e saranno donne. Anche i settori dell’energia, dei trasporti e della difesa, che si prevede svolgeranno un ruolo enorme nell’economia dopo la guerra, sono destinati ad attrarre più lavoratrici.
In Afghanistan, invece, le sfide per le donne hanno sempre avuto caratteristiche molto specifiche. Per la grande maggioranza, la partecipazione attiva alla vita politica, sociale ed economica è tornato ad essere un sogno irraggiungibile. Arrivando a Kabul per la prima volta nel 2005, poco dopo la caduta del primo regime talebano, anche io ho dovuto affrontare sfide inaspettate sia in qualità di donna che di professionista. Armata di una laurea in economia e animata dall’aspirazione di promuovere l’occupazione femminile, mi aspettavo di trovare ragazze ansiose di costruire un futuro professionale. La realtà si è rivelata più complessa. Donne di ogni età, appartenenza etnica e ceto sociale erano unite dalla stessa disperata ricerca di autonomia sì, ma soprattutto di pace.
Questa esperienza ha ridefinito profondamente il mio approccio professionale, spingendomi a concentrarmi non solo sull’empowerment economico, ma anche su soluzioni a sostegno una pace sostenibile. All’inizio della mia carriera nella cooperazione internazionale, non mi era chiaro il nesso tra economia e pace, bene espresso nella risoluzione 1325/2000. Lo compresi attraverso le donne con le quali lavoravo.
Il mio lavoro divenne presto quello di contribuire a trasformare le barriere socioculturali in opportunità di emancipazione, tassello fondamentale nel mosaico della costruzione di una società globale più giusta e inclusiva. Ho cercato di tessere connessioni profonde tra sviluppo economico e stabilità sociale, iniziando col disegnare progetti volti all’istruzione di base (insegnando alle donne a leggere e scrivere) fino ad offrire una formazione tecnica più specifica. Attraverso la microfinanza innovativa, molte donne hanno intrapreso il proprio percorso nel mondo del lavoro e degli affari. Tante sono diventare imprenditrici dando lavoro ad altre donne, e ampliando un circolo virtuoso di autodeterminazione, stabilità economica e familiare.
Da questo primo viaggio afghano, la mia vera scuola, è nata Nova Caring Humans, un’organizzazione no profit fortemente voluta da me e dalla mia amica, collega e compagna di (dis)avventure Susanna Fioretti. Ci siamo promesse allora che non avremmo mai lasciato il popolo afghano e che saremmo rimaste a fianco delle donne. Stiamo mantenendo il nostro impegno anche adesso, in uno dei momenti più bui del Paese. Continuiamo a promuovere progetti socioeconomici che garantiscono l’accesso delle donne al mercato del lavoro e contribuiscono ad uno sviluppo inclusivo, generativo e sostenibile pilastri di dignità, stabilità e pace.
L’Afghanistan e la sua popolazione mi hanno insegnato che la pace si fa un passo alla volta, un giorno dopo l’altro. Si va avanti anche quando ciò che è stato costruito viene danneggiato, offeso, svalutato. Ed è allora che la forza e la lungimiranza delle donne come vettore di stabilità e sicurezza diventa imprescindibile dalla costruzione di una pace duratura.
Nel corso degli ultimi vent'anni, il mio impegno iniziato in Afghanistan si è esteso a numerosi altri Paesi, portandomi a interagire con tanti universi femminili. Ho imparato ad integrare i principi dell'agenda delle Nazioni Unite su Donne, Pace e Sicurezza con le diverse strutture sociali, trasformando queste politiche in strategie di pace che rispondono alle esigenze reali delle comunità con cui lavoro.
* economista dello sviluppo, cofondatrice e vicepresidente di Nove Caring Humans. Le sue aree di intervento spaziano dalla giustizia di genere alla lotta alla tratta