sabato 18 maggio 2024
L'attivista premiata nel 2017 per conto della Campagna internazionale per l'abolizione delle armi nucleari: «Le donne si sono dovute inventare modalità alternative alla lotta di potere»
Un ritratto di Beatrice Fihn, l'attivista che nel 2017 ricevette il premio Nobel per la pace per conto dell'Ican, la Campagna internazionale per l'abolizione delle armi nucleari

Un ritratto di Beatrice Fihn, l'attivista che nel 2017 ricevette il premio Nobel per la pace per conto dell'Ican, la Campagna internazionale per l'abolizione delle armi nucleari

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Nel 2017 ha ricevuto il premio Nobel per la pace per conto dell’Ican, la Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari, di cui è stata direttrice esecutiva dal 2014 al 2023. Da poco più di un anno dirige, a Ginevra, l’organizzazione no profit Lex International, che si occupa di sviluppare soluzioni ai problemi globali attraverso la legislazione internazionale. Nata in Svezia nel 1982, Beatrice Fihn è laureata in Relazioni internazionali e ha conseguito un master in Legge. Ha tenuto presentazioni alle Nazioni Unite e al World Economic Forum, in diversi parlamenti e in università quali Harvard. Di una cosa è convinta: il cambiamento non si fa da soli. E più ci si confronta, meglio è per tutti.

Che cosa l’ha spinta a dedicarsi alla risoluzione dei conflitti? Che ragazzina era?

Sono cresciuta in Svezia, un Paese piccolo e a quel tempo neutrale. La Svezia non ha la capacità di ottenere quello che vuole con la forza, pertanto deve privilegiare la diplomazia, le relazioni internazionali e la cooperazione per garantire la propria sicurezza. Vivevo in un’area con molti immigrati, attorno a Göteborg. Tutti i miei amici, o i loro genitori, erano arrivati da un altro Paese a causa di conflitti. Erano gli anni della guerra nei Balcani, della rivoluzione iraniana, della dittatura cilena di Pinochet, della carestia in Somalia. Anche se vivevamo nella piccola e tranquilla Svezia, i miei migliori amici avevano un legame diretto con quelle crisi. Capivo che quello che succedeva in Cile, in Iran, in Somalia mi riguardava.

Intende dire che un alto tasso di immigrazione non accresceva la conflittualità ma insegnava a gestirla?

Quando si guarda la guerra in televisione tutto appare bianco o nero, l’eroe e il nemico. Ma nella maggior parte dei casi non è così, è più complesso. Da bambina ero molto confusa riguardo alla guerra dei Balcani. Bosniaci, serbi, kossovari, albanesi, croati. Chi è il buono, chi è il cattivo? Era tutto così mischiato, fazioni diverse, comunità diverse. Presto ho capito che è un processo complicato. Tutta quella gente veniva in Svezia e i bambini si trovavano in classe insieme anche se erano stati in guerra gli uni contro gli altri. Credo che, non solo io ma la Svezia come Paese, abbiamo imparato molto da quegli immigrati.

Quanto ha influito sulle sue scelte l’ambiente familiare?

I miei genitori erano attivi in politica. Da studenti, avevano partecipato entrambi alle proteste contro la guerra in Vietnam. Erano impegnati a livello locale, anche negli organismi scolastici. Facevano parte di gruppi e associazioni. Mia madre fu tra i promotori di un’orchestra. Mio padre era presidente della società sportiva dov’ero iscritta. Sono cresciuta in una famiglia in cui era importante sentirsi parte di una comunità. Vuol dire parlare di compromessi e di come si prendono le decisioni, partecipare a riunioni e votare. Capivo che era quello il modo in cui si cambiano le cose. Era l’opposto dell’individualismo di oggi, del “ci penso io”.

Dopo la laurea, svolse un tirocinio in un’associazione femminista, la Lega internazionale delle donne per la pace e la libertà. Cosa le lasciò quell’esperienza?

Radicò in me il convincimento che le armi e la guerra rientrano in un sistema di valori maschile. Non c’è motivo per cui la diplomazia e il compromesso debbano essere visti come una debolezza. Le soluzioni in cui tutti si vince esistono. C’è un maschile legato all’uso della forza, alle gerarchie e alle lotte di potere e c’è un femminile che predilige l’egualitarismo e la diplomazia. Questo perché, tradizionalmente, le donne per farsi ascoltare si sono dovute inventare modalità alternative alla lotta di potere che le avrebbe viste perdenti.

Com’era l’ambiente nella Lega internazionale delle donne per la pace?

Aperto, accogliente, non gerarchico. Mi ha aiutato a credere in me. Ero una tirocinante ma nelle riunioni avevo lo stesso diritto di parola della direttrice e della segretaria generale. Mi ascoltavano. In seguito, ho capito che sono stata una privilegiata. Mi facevano sentire che valevo, che avevo il diritto di fare tutto. Nel mio primo mese da tirocinante, mi hanno proposto: vuoi tenere un discorso alle Nazioni Unite? Non riuscivo a crederci. “Hai le idee, sai di cosa parli, perché no?”. Tenni il discorso al Palazzo di Vetro, ero emozionatissima.

Esiste uno specifico contributo femminile ai processi di pace?

La pace non è solo assenza di guerra. È sviluppo, diritti umani, sostenibilità. Coinvolge l’intera società e non può escludere metà della popolazione. Le donne devono prendere parte ai processi di pace non per una questione morale ma perché gli studi dimostrano che, quando nei negoziati è coinvolto un buon numero di donne, si costruisce una pace più duratura. Pensiamo allo sminamento. Sono le donne a indicare di sminare non solo le strade ma i percorsi che conducono ai pozzi e alle scuole. In molti Paesi sono loro che vanno a prendere l’acqua e si occupano dei figli. Si pensi alle armi che restano in circolazione dopo un conflitto, con i soldati che tornano a casa traumatizzati. Dopo le guerre aumenta la violenza domestica. Senza le donne ai tavoli dei negoziati, difficilmente questi problemi vengono presi in considerazione.

Nel 2017 il suo nome fu indicato da Bloomberg Media tra quelli delle cinquanta persone “innovatrici” che avevano “cambiato il panorama globale”. Crede che ci sia un nesso tra essere donna e innovare?

Le donne sono innovatrici per necessità. Il tradizionale potere maschile in ambito politico, militare ed economico le costringe a inventarsi strade nuove per esercitare la loro influenza.

Cosa le piace ricordare del giorno in cui, a nome dell’Ican, ricevette il Nobel?

Un’esperienza incredibile, un onore per tutta la campagna. Perché è difficile lavorare su questi temi. Spesso ti dicono: perché lo fai, tanto non cambierai nulla. È stato un riconoscimento per tutta la società civile. Ha dimostrato che non è necessario essere un governo o un ricco per avanzare proposte alternative. Un gruppo di cittadini può migliorare il mondo. Ricordo l’entusiasmo. E le feste che facemmo, a Oslo.

Davvero pensa che esisterà un mondo senza armi nucleari?

Assolutamente sì. Possiamo solo scegliere se esisterà prima o dopo che vengano usate.

Che cosa direbbe a una donna militarista?

Per me è importante pensare che non tutte le donne sono uguali. Le donne non sono più pacifiste degli uomini. Penso che ci sia un alto tasso di donne che parlano di pace perché sono responsabili di scuole e sanità e per questo vedono la guerra da un’altra prospettiva. Ciò non vuol dire che non ci siano moltissime donne militariste, magari nell’esercito, così come ci sono uomini impegnati negli sforzi di pace. Più che di donne e uomini, preferisco parlare di femminile e di maschile. Penso che più donne vanno al potere, più prospettive differenti abbiamo. Non basta avere una donna primo ministro, come in Italia, per cambiare le cose. Credo che la soluzione sia mischiare, combinare più punti di vista.

Nelle delegazioni che per mesi hanno trattato su una tregua a Gaza non figurano donne. Lo stesso vale per chi decide sulla guerra in Ucraina. Come immagina i futuri negoziati?

Dobbiamo garantire che le voci femminili di quei Paesi siano ascoltate. Che ai tavoli negoziali siedano anche donne. L’esperienza della guerra è diversa per uomini e donne. Non c’è migliore o peggiore. L’importante, per costruire una pace duratura, è che tutti i punti di vista abbiano voce in capitolo. Spesso le cronache giornalistiche si limitano a parlare dei missili. Se sentissimo i racconti delle persone che vivono la guerra sulla loro pelle ne avremmo una percezione più vera.


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