Mahmouba Seraj, attivista afghana candidata al premio Nobel per la pace - .
Con questa e decine di altre testimonianze, storie, interviste e lettere, le giornaliste di Avvenire fino all'8 marzo daranno voce alle bambine, ragazze e donne afghane. I taleban hanno vietano loro di studiare dopo i 12 anni, frequentare l'università, lavorare, persino uscire a passeggiare in un parco e praticare sport. Noi vogliamo tornare a puntare i riflettori su di loro, per non lasciarle sole e non dimenticarle. E per trasformare le parole in azione, invitiamo i lettori a contribuire al finanziamento di un progetto di sostegno scolastico portato avanti da partner locali con l'appoggio della Caritas. QUI IL PROGETTO E COME CONTRIBUIRE
Quando, due settimane fa, un amico l’ha chiamata dalla California, nel cuore della notte, per congratularsi per la candidatura al Nobel per la Pace, ha pensato a uno scherzo. «Poi ho cominciato a cercare su Internet. Non è stato facile, spesso la Rete va a singhiozzo. Alla fine, però, ho trovato la conferma. Non ci potevo credere. È un grandissimo onore per me. Tanto più che sono menzionata insieme a Narges Mohammadi, la grande attivista per i diritti umani in Iran reclusa nel carcere di Evin. Ma più ancora è un sostegno prezioso per le donne di Teheran e Kabul che lottano, in condizioni difficilissime, per non scomparire», racconta Mahbouba Seraj con voce squillante nonostante i 75 anni, di cui oltre cinquanta spesi nella difesa della dignità degli afghani e, soprattutto, delle afghane. In tanti, in questo incandescente mezzo secolo, hanno cercato di farla desistere. Prima i comunisti legati agli invasori sovietici, poi i signori della guerra, ora i taleban. Ma Mahbouba va avanti, con coraggio. Anche nella gabbia sempre più soffocante dell’Emirato dove ha scelto di restare nonostante il passaporto statunitense. «Perché l’ho fatto? Per non abbandonare le tante che contano su di me. Se me ne andassi che ne sarebbe delle nostre ospiti?», spiega la nipote del re illuminato Amanullah Khan e fondatrice dell’Afghan women’s network, rete di organizzazioni che sostiene una serie di rifugi per vittime di violenza domestica. Gli unici rimasti. Avvenire la raggiunge grazie a Women in international security (Wiis) Italy che ha lanciato una task force di e per le donne afghane con il sostegno del ministero degli Esteri e alla presidente e fondatrice dell’iniziativa, Loredana Teodorescu. «La situazione è difficile. Molto difficile. Ci stanno strappando i diritti conquistati con tanta fatica uno dopo l’altro».
Perché questa escalation?
Perché l’Occidente ha distolto lo sguardo. L’intensificazione della repressione, tra l’altro, non è una linea condivisa all’interno della dirigenza taleban. È la volontà di una minoranza, molto potente: il cosiddetto gruppo di Kandahar.
È possibile utilizzare le divergenze fra i vertici dell’Emirato per aprire un canale di dialogo? Ed è giusto farlo?
È giusto e necessario. Io ci ho provato.
Quando?
Alla fine di gennaio 2022, la Norvegia ha ospitato un dialogo tra i rappresentanti del composito mondo afghano e quelli dell’Emirato per cercare di avviare un processo di riconciliazione nazionale. Io ero fra i delegati.
Come è stato trovarsi seduta allo stesso tavolo dei taleban per la prima volta?
Ero molto nervosa. Non sapevo che cosa aspettarmi. Devo dire che, però, siamo riusciti a parlarci in modo sereno. Ci hanno trattato con rispetto.
Perché ha accettato di dialogare con chi attua la cancellazione delle donne dal suo Paese?
Perché rappresentava una possibilità di fare qualcosa di concreto per ricomporre la frattura dopo 45 anni di guerra. Ho fiducia nel dialogo. Ne ho sempre avuto. Credo nelle parole, non nelle armi. Forse perché ho imparato quanto male queste possano fare.
Perché il dialogo di Oslo non è andato avanti?
Il processo era estremamente delicato. La comunità internazionale invece di aiutare, l’ha sabotato. Sono cominciate le polemiche e questo ha fatto naufragare l’iniziativa.
Come vivono le afghane l’aumento della repressione?
Lavoro con e per le donne dentro il Paese dal 2003 ed è sempre stato arduo. Mai come ora, però. Ormai ci impediscono di vivere. Poco più di dieci giorni fa, nel sud dell’Helmand, le autorità hanno fatto frustare una donna perché aveva viaggiato per più di 70 chilometri senza un parente maschio. Invano ha cercato di spiegare che l’aveva fatto per poter vendere della mercanzia con cui sfamare i suoi piccoli. Era una vedova, come la gran parte delle afghane. Se non consentono loro di lavorare, come manterranno i figli?
A differenza dell’Iran dove sono in piazza al fianco delle donne, in Afghanistan sono pochi gli uomini che protestano contro la progressiva sparizione delle donne dal tessuto civile. Perché?
Quarantacinque anni di guerra li hanno sfiniti. E, soprattutto, li hanno resi sfiduciati. La terribile emergenza umanitaria ha fatto il resto. È come se la gran parte avesse perso la forza. Forza per combattere. Forza anche solo per andare avanti. A dimostrarlo è l’aumento dei suicidi maschili. Anche tante donne lo fanno. Altre, però, hanno trovato nella protesta la spinta per vivere.
Potrà la rivolta disarmata delle afghane sconfiggere i taleban? E come può aiutarle la comunità internazionale?
Stando al nostro fianco. Non lasciateci sole. Per favore, non dimenticateci. E accogliete quanti e quante fuggono dal Paese perché non possono più rimanere.