sabato 25 febbraio 2023
La 31enne afghana è fuggita dal suo Paese dopo l'arrivo dei taleban a Kabul. Ad Avvenire dice: un grande errore dell'Occidente abbandonarci dopo averci illuso che la nostra vita sarebbe cambiata
Zahar Joya

Zahar Joya - per gentile concessione di Zahar Joya

COMMENTA E CONDIVIDI

Con questa e decine di altre testimonianze, storie, interviste e lettere, le giornaliste di Avvenire fino all'8 marzo daranno voce alle bambine, ragazze e donne afghane. I taleban hanno vietano loro di studiare dopo i 12 anni, frequentare l'università, lavorare, persino uscire a passeggiare in un parco e praticare sport. Noi vogliamo tornare a puntare i riflettori su di loro, per non lasciarle sole e non dimenticarle. E per trasformare le parole in azione, invitiamo i lettori a contribuire al finanziamento di un progetto di sostegno scolastico portato avanti da partner locali con l'appoggio della Caritas. QUI IL PROGETTO E COME CONTRIBUIRE

Zahra Joya aveva solo cinque anni quando i taleban presero il potere per la prima volta in Afghanistan. Era il 1996 e una delle prime decisioni degli studenti islamici ora al potere fu di bandire l’istruzione delle bambine. Chiuse in casa, senza la possibilità nemmeno di imparare a leggere e scrivere, alle afghane veniva tolto qualunque futuro, ogni possibilità di indipendenza, ogni forma di vita che non fosse una sottomissione completa ai maschi e ai doveri domestici.

Ma alla piccola Zahra imparare piaceva moltissimo e così supplicò i genitori di mandarla a scuola. Fu lo zio insegnante ad accompagnarla ogni giorno, per un tragitto lungo per due ore, travestita da maschio e nascosta sotto il nome di Mohammed, in quella scuola dove è cominciato il suo futuro di donna indipendente.

Un attaccamento alla vita, quella della coraggiosa giornalista di 32 anni, che oggi dirige dal suo esilio londinese la prima agenzia femminista afghana, Rukhshana Media”, iniziato fin dalla nascita, quando gli anziani della sua famiglia si dimostrarono molto delusi perché era femmina. «Ma mio padre era diverso - racconta da Londra -. Era un vero femminista e mi ha sempre aiutato. Da lui ho imparato che non esiste differenza tra uomini e donne e che è importante promuovere l’idea che le donne sono esseri umani con gli stessi diritti degli uomini. Mi fa soffrire l’idea che le donne siano considerate essere inferiori. Lo trovo profondamente ingiusto. Non mi sono mai vergognata di quello che sono. Ho sempre pensato che potevo ottenere tutto quello che volevo».

Che cosa vuol dire, per lei, il suo lavoro?

Ho cominciato a lavorare come giornalista nel 2011, a 20 anni, e all’inizio non mi ero resa conto di quanto fosse importante il mio mestiere. Oggi so che ha un grande peso che io operi e lavori come giornalista donna. So che il mio lavoro mi dà la possibilità di dare voce alle donne afghane alle quali viene proibito di parlare, e di fare campagna per i loro diritti.

Che tipo di vita fa a Londra?

Non avrei mai immaginato che sarei diventata una rifugiata ma è quello che sono in questo momento. Fisicamente sono qui, ma mentalmente sono in Afghanistan, insieme alle altre donne mie compatriote, che stanno vivendo una situazione cosi difficile, confinate a casa, sempre accompagnate da un guardiano maschio. Certo sono grata a Dio per la sicurezza fisica della quale posso godere. Abito a Islington, un quartiere del nord di Londra, in un appartamento con quattro camere, insieme a tre delle mie sorelle. Il resto della famiglia, compresi i miei genitori, sono rimasti in Afghanistan e non possono raggiungerci perché la legge sull’immigrazione britannica non lo consente. Si trovano in una situazione molto difficile. Non possono uscire di casa. Sono molto a rischio e sono preoccupata per loro, anche perché non c’è alcuna possibilità che mi raggiungano perché la legge sull’immigrazione britannica non lo consente. La Gran Bretagna e gli Stati Uniti hanno promesso di aiutare i cittadini afghani a rischio ma non hanno mantenuto queste promesse perché chiedono ai miei parenti di ottenere un visto che non possono avere. Io sono riuscita ad arrivare qui soltanto perché esisteva un vero rischio che i taleban mi uccidessero e allora l’ambasciata britannica di Kabul mi ha evacuato.

Cos’è la cosa più importante che l’Occidente può fare per l’Afghanistan in questo momento?

Sostenere le donne afghane e difendere i loro diritti e riconoscere i taleban come organizzazione terrorista, impedendo loro di viaggiare cosi che possano venire isolati. I taleban sono terroristi collegati ad altre organizzazioni simili come “Al-Qaeda” o “Daesh”. Penso che sia possibile un altro attacco come quello dell'11 settembre 2001.

Come riesce a dirigere la sua agenzia d’informazione da qui?

Abbiamo dieci giornalisti, cinque redattrici e tre redattori e due caporedattrici donne. I miei colleghi lavorano sul campo, in Afghanistan o in Pakistan, in condizioni molto rischiose. Ci mandano le storie e noi le riscriviamo e le pubblichiamo. Lavorano di nascosto, per denunciare i matrimoni forzati, violenze sessuali e altri abusi subiti dalle donne afghane, ma i taleban possono scoprirli e ucciderli in qualunque momento. Collaboriamo da vicino con l’organizzazione “Internews”.

Alcuni ritengono che l’Occidente non dovrebbe più inviare aiuti al suo Paese per asfissiare il potere dei taleban. Che cosa ne pensa?

È difficile prendere questa posizione perché i cittadini afghani, in questo momento, non hanno da mangiare e sono in grande difficoltà. È importante che la comunità internazionale controlli da vicino come questi aiuti vengono usati per evitare che finiscano ai taleban anziché alla popolazione.

Che errori ha fatto l’Occidente?

Andarsene dall’Afghanistan senza un piano strategico, come gli Stati Uniti hanno fatto nel 2021, dopo averci illuso che la nostra vita sarebbe cambiata davvero, è stato un grande errore.

Le piace Londra?

Si. Adoro questa città perché cosi tante persone, di cosi tante nazionalità diverse, convivono qui.

Com’è la sua giornata tipo?

Mi sveglio alle cinque o alle sei del mattino perché in Afghanistan sono quattro ore e mezza più avanti rispetto a Londra, e lavoro fino alle tredici o alle quattordici. Poi ho un po' di tempo libero. Mi piace molto cucinare cibo afghano. Ma in realtà lavoro in continuazione, tutti i giorni, non stacco mai.

È religiosa?

Sì. Prego ogni giorno. Credo nel potere di Dio e parlo con Lui. Sono convinta che Dio sia molto influente nella nostra vita. Mi preparo ad osservare il Ramadan, tra un mese, anche se non potrò celebrare alla sera insieme ad altri afghani, come è sempre capitato nel mio Paese, perché qui a Londra sono piuttosto isolata e molto occupata.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI