Una preghiera semplice. Misurata sulle nostre realtà. Immediata. Per chiedere a Dio il «dono» di «poter portare con amore le nostre croci quotidiane, nella certezza che esse sono illuminate dal fulgore della Pasqua». Nella limpida serata romana, l’Anfiteatro Flavio illuminato dalle "padelle" e dalle fiaccole, è con questa preghiera che Benedetto XVI ha chiuso la "Via Crucis" che, in questo Venerdì Santo del 2010, è tornata a parlare al mondo. Per dirci, attraverso le parole della meditazione finale di papa Ratzinger, che se «nella storia l’uomo tocca il limite estremo della sua impotenza e la Croce appare come il segno dell’abbandono, della debolezza, del fallimento», con la morte di Cristo «essa è diventata invece il segno del nuovo inizio, dell’amore sconfinato di Dio». Per questo, ha aggiunto, la Risurrezione «che celebreremo domani notte» rappresenta «l’alba della luce che permette di vedere in modo nuovo la vita, le difficoltà e le sofferenze. Le nostra amarezze vengono illuminate dalla speranza. Dal tradimento nasce l’amicizia, dal rinnegamento il perdono, dall’odio l’amore». E così, è stata l’invocazione del Pontefice, dalla croce «nasca in noi un rinnovato desiderio di convertire il nostro cuore all’amore, che è l’unica forza capace di cambiare il mondo». Davanti a migliaia di fedeli e pellegrini, e alle telecamere che hanno trasmesso l’evento in mondovisione in 60 Paesi di tutto il mondo, come lo scorso anno Benedetto XVI ha presieduto il rito da un palco eretto su una terrazza naturale che domina l’intero percorso, un’antica strada di epoca romana che, partendo dal Colosseo, giunge fino al Palatino. Da lì ha seguito le quattordici stazioni, accogliendo la croce alla fine, dalle mani del cardinale vicario di Roma Agostino Vallini, che l’aveva portata anche alla prima stazione. Qui il porporato l’aveva consegnata, per la seconda e la terza, a Venel Joseph e Andrè Delavarre, di Haiti. Quindi è toccato a un malato, a un assistente e a un barelliere dell’Unitalsi (l’Unione nazionale Italiana Trasporto Ammalati a Lourdes e Santuari Internazionali), tutti italiani, alla quarta e alla quinta; a una famiglia romana alla sesta e alla settima; ad Ameeer Michael Yalda Gammo e e Kais Mumtaz Habeeb Kaje, dall’Iraq, alla ottava e alla nona; a Wivine Kasay (Congo) e a Teresa Khuong (Vietnam), alla decima e undicesima; e infine a due frati della Custodia di Terra Santa, alla dodicesima e tredicesima. Cirenei da tutto il mondo, come evidente. E presenze immediatamente simboliche, con il loro rappresentare luoghi e situazione dove, in modo diverso ma con eguale evidenza, dolore e speranza - i due "estremi" della Via Crucis - oggi si intersecano. «Il Papa – ha voluto per esempio sottolineare a questo riguardo padre Philip Najim, procuratore del Patriarcato caldeo di Babilonia presso la Santa Sede, a proposito della presenza tra i "Cirenei" dei suoi due connazionali – ha voluto dare così un segno tangibile di grande vicinanza e affetto al nostro Paese e alla sofferenze del suo popolo, e dei cristiani in particolare», e «ricordare, in questo modo, il calvario dell’Iraq e ribadire che solo attraverso la passione e la sofferenza si giunge alla Resurrezione».A scandire il percorso sono state le meditazioni che papa Ratzinger ha voluto quest’anno affidare al cardinale Camillo Ruini, già vicario di Roma e per oltre quindici anni presidente della Conferenza episcopale italiana. Meditazioni significativamente aperte dalla preghiera elevata al «Signore, Dio Padre onnipotente... Libera la nostra volontà dalla presunzione … ingenua e infondata, di poter costruire da soli la nostra felicità e il senso della nostra vita», e quindi scandite, sul filo dei passi biblici, a partire da una crocifissione conseguenza ai nostri peccati, e dall’esortazione a guardare «al male e al peccato che abitano» in noi «e che troppo spesso fingiamo di ignorare». Fare memoria di Gesù sotto il peso della Croce, ha scritto ancora Ruini - che non ha mancato di ricordare il quinto anniversario della morte di Giovanni Paolo II - significa anche pensare alle «tante diverse forme» di croce «nella vita di ogni giorno». Eventi spesso considerati sfortune o disgrazie, mentre invece il cristiano può scorgerle come porte che nella vita si aprono verso un bene più grande.