Pham Van Cong ha gli occhi lucidi per la commozione. Tanti anni fa, quando era il carceriere del prigioniero François-Xavier Nguyen Van Thuân, accusato di «aver complottato con il Vaticano e gli imperialisti contro la rivoluzione comunista», mai avrebbe immaginato di ritrovarsi un giorno in prima fila, in mezzo a tanti cardinali e vescovi di Santa Romana Chiesa, ad assistere all’inizio del processo di beatificazione del suo antico perseguitato. Monsignor Paul Pham Van Hien, invece, sprizza gioia da tutti i pori. «Sono felice di aver vissuto con un santo», dice il sacerdote vietnamita che del cardinale Van Thuân è stato per otto anni il segretario personale.Insieme a loro, nell’Aula della Conciliazione, un pezzo di quel Vietnam tanto amato dal presidente del Pontificio Consiglio "Giustizia e pace" e che tanto lo ha fatto soffrire, per il solo motivo di essere un vescovo cattolico. Questo è infatti un giorno di festa per la comunità ecclesiale del Paese asiatico. A otto anni dalla morte, avvenuta a Roma il 16 settembre 2002, inizia ufficialmente l’itinerario verso la gloria degli altari. E sono numerosi i suoi connazionali che non hanno voluto mancare all’appuntamento. Molti sono vestiti con i classici costumi adornati da caratteristici copricapo usati nelle feste del loro Paese: l’
ao dai per gli uomini, il
khan dong per le signore. E l’atmosfera che si respira nella storica aula è davvero quella delle grandi occasioni.«Il ricordo di questo grande testimone della fede – dice infatti il cardinale vicario di Roma, Agostino Vallini – suscita grande ammirazione. Quanti lo avvicinavano rimanevano colpiti dalla sua bontà, a cominciare dai suoi carcerieri, tanto che una volta un capo della polizia gli chiese di insegnare agli agenti le lingue che lui parlava correntemente».Ne sa qualcosa lo stesso Cong, che oggi è qui e ascolta il discorso del porporato con accanto un sacerdote che glielo traduce simultaneamente. Vallini, infatti, nel ripercorrere la straordinaria vicenda umana di Van Thuân, si sofferma in particolare sulla grande prova dei suoi tredici anni di prigionia: dal 1975, anno della caduta di Saigon, la capitale del sud di cui il Servo di Dio era stato da poco nominato arcivescovo coadiutore, fino al 1988. Prigionia dura, trascorsa per gran parte in isolamento, con angherie di ogni tipo. Compresa quella di trasferirlo di continuo da un posto all’altro, per impedirgli di diventare amico di quanti dovevano controllarlo. «La sua bontà – ricorda, infatti, il cardinale vicario – conquistava di volta in volta i suoi carcerieri e questo faceva irritare le autorità superiori».In carcere l’allora arcivescovo Van Thuân celebrava la Messa tenendo in mano alcuni pezzetti di pane e poche gocce di vino, custodite in una boccetta con la scritta «medicina per il mal di stomaco», che i fedeli gli facevano arrivare eludendo i controlli. Era riuscito a fabbricarsi una croce in legno e a forgiarsi una croce pettorale con del semplice filo di ferro. Infine scrisse su pezzi di carta in ogni modo raccattati i suoi pensieri e oltre 300 frasi del Vangelo, poiché non poteva disporre di una Bibbia.Nel 2000, quando Giovanni Paolo II lo chiamò a predicargli gli esercizi spirituali, nel discorso di ringraziamento, disse: «La sua sofferta prigionia ci rafforza nella consolante certezza che quando tutto crolla attorno a noi e forse anche dentro di noi, Cristo resta indefettibile nostro sostegno». E questa è anche la grande eredità del porporato vietnamita. «L’essere stato – ricorda in conclusione del suo discorso Vallini – soprattutto un testimone di speranza».