Sembrano due Milano diverse, quella dell’alba, quando la città ancora assopita sotto una coltre di nebbia attende la prima visita del Pontefice, e quella della sera, che ormai saluta Francesco con l’energia di un popolo che ha ricevuto nuova linfa vitale. La prima Milano, quella delle 6, schiera lungo le sue strade ancora senza macchine un popolo già in cammino, fatto di singoli e famiglie, di gruppi che si sono dati appuntamento davanti alle parrocchie e bambini, i più piccoli addormentati nello zaino dei papà. È un fermento inconsueto, ovattato dalla nebbia e dal sonno.
Sulla pista, ad attendere Francesco, oltre alle autorità, c’è la prima di tante folle, quella dei dipendenti dell’aeroporto, con il loro cappellano don Fabrizio Martello che scherza di ottimo umore. L’aereo candido che porta Francesco appare all’improvviso, alle 8, quando è già sulla pista, a pochi passi dalla gente che ora ammutolisce: si apre il portello e Francesco sorride, candido pure lui, che se non ci fossero i pennacchi rossi dei due carabinieri in alta uniforme tutto sarebbe impalpabile come un miraggio. Scende da solo la ripida scaletta e la gente ride stupita di tanta “normalità”, nessuna cerimonia, l’abbraccio affettuoso del cardinale Scola, i fiori da due bambini milanesi e don Fabrizio che non resiste al “rito” consueto: via lo zucchetto del Papa, che si mette in tasca come un trofeo, e in cambio gliene ha portato un altro.
E qui avviene ciò che succederà per tutto il giorno: sta per salire in auto ma l’urlo della folla di Linate lo chiama e lui non delude nessuno, una carezza a uno, una battuta a un altro. Poco dopo sarà già in via Salomone, alle Case Bianche, quartiere difficile e complesso. E per questo lo ha scelto. La famiglia di marocchini islamici da cui va in visita scoppia di gratitudine. «Santo, santo», ripete il capofamiglia agitandosi incredulo. Poi la casa è quella di due anziani, ma la moglie è ricoverata in ospedale: «Eh, gli acciacchi», le telefona papa Francesco, intenerito da quei due avueliti, nonnini.
Subito dopo in Duomo, che brulica di sacerdoti e suore: almeno qui il Papa è tutto per loro. «Come compiere il nostro lavoro senza perdere la gioia?», è la domanda del giovane don Gabriele, «a volte torniamo con la rete vuota». «Non sempre l’evangelizzazione è sinonimo di prendere pesci – risponde il Papa –: prendi il largo, dai testimonianza, e poi è il Signore che prende i pesci». Alla suora orsolina preoccupata, «siamo minoritari in questo mondo», restituisce speranza: «Pochi sì, in minoranza sì, rassegnati no!». Continua instancabile la corsa del Papa, che rinuncia anche al riposo dopo il pranzo con i detenuti di San Vittore.
Poi al parco di Monza, il più grande d’Europa, dove ad attenderlo c’è un milione di fedeli. Tutti fermi sotto un sole ora cocente, ma sembrano non accorgersene. C’è anche Rosa Larini, in carrozzina e decisa ad aspettarlo: «Oggi compio 92 anni». Anche qui per 40 minuti Francesco pone la mano sul capo di adulti e bambini, benedice, si fa un selfie, scambia di nuovo lo zucchetto e alle 15.30 quando inizia a dire Messa la voce si incrina senza fiato.
Il vescovo di Roma abbraccia con le parole e con lo sguardo la Chiesa ambrosiana, «terra che ha generato tanti carismi e missionari», e le chiede di rendere «possibile l’impossibile ». Poi ad incrinarsi è la voce di Scola, nel chiedere «alla Madonnina di stendere il suo velo» sopra il Papa. Ancora due ore e il vigore torna tutto, quando Francesco incontra i ragazzi della Cresima dentro San Siro. Ma non è finita: due ali di folla, lo attendono fino a Linate: dovrà pure passare. È sera, ma Milano ancora non lo lascia partire.