mercoledì 19 marzo 2025
Francesco Antonioli, giornalista e saggista, riflette sul rapporto fra Bibbia e comunicazione. Fra il “crollo di Babele” e l’urgenza di una “Pentecoste della comunicazione”
Il Cantico dei Cantici suggerisce la generatività della comunicazione. Atto contrario all'odierna deriva legata al "marketing dell'ignoranza", con le distorsioni provocate dalla "massificazione dell'eccentricità" e dalla "amazonizzazione delle aspettative"

Il Cantico dei Cantici suggerisce la generatività della comunicazione. Atto contrario all'odierna deriva legata al "marketing dell'ignoranza", con le distorsioni provocate dalla "massificazione dell'eccentricità" e dalla "amazonizzazione delle aspettative" - .

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L’immagine di Babele è un rovello. La sfida drammatica di Genesi 11 ci insegue, ma continuiamo a non rispondere, perché – forse – non lo capiamo. I linguaggi non hanno più trasparenza, sono cecità di significato contro i valori di senso. E determinano, alla fine, parole di odio. Agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, l’allora prefetto della Biblioteca Ambrosiana Gianfranco Ravasi partiva da qui, dalla Bibbia, per esortare a una “Pentecoste della comunicazione”. Adesso, in pieno villaggio digitale, il francescano Paolo Benanti ci ammonisce sul “crollo di Babele”: il progetto umano ipertecnologico che vuole unire l’umanità in un’unica opera, cultura e lingua, collassa, disperde i popoli e li rende incapaci di intendersi.

È l’urgenza di riprendere tra mano i codici originari che sembrano smarriti. È la centralità della relazione, ci ricordano le Scritture, a fondare la comunicazione. Siamo iperconnessi, ma viviamo relazioni malate, spesso tossiche: in famiglia; nella vita di coppia; sul lavoro; spesso e volentieri anche nella comunità ecclesiale. Il linguaggio si sta erodendo, non è nitido, ma ambiguo; preferiamo non ascoltare, con il risultato che si moltiplica l’incapacità di gestire rapporti adulti. Il cardinale Martini amava l’espressione “folla delle solitudini”. «Fools said I you do not know, silence like a cancer grows». Ho riascoltato recentemente The sound of silence di Paul Simon e Art Garfunkel, lanciata nel lontano 1966. Per me, inesorabile boomer, una melodia emozionante. Nell’ossimoro del titolo, il suono del silenzio, c’è il tema, attualissimo, dell’incomunicabilità, del timore-tremore di restare soli con noi stessi.

Nella Bibbia – e in particolare nella vita dell’errante Rabbi galileo – troviamo invece la declinazione di quei verbi su cui potremmo intraprendere una rigenerante logopedia esistenziale. Come cittadini, come operatori della comunicazione, specie in Santa Romana Chiesa: parlare, con tutti i termini e i vocaboli che indicano la parola; e poi udire, ascoltare, vedere. Il Cantico dei cantici, nella bellezza descrittiva dell’unione tra uomo e donna, suggerisce anche la generatività della comunicazione. Tutto il contrario della deriva che stiamo vivendo in più ambiti per effetto del “marketing dell’ignoranza” – da poco descritto da un efficacissimo saggio dell’economista Paolo Guenzi, docente alla Bocconi – con le distorsioni provocate dalla “massificazione dell’eccentricità” e dalla “amazonizzazione delle aspettative”.

«Niente nostro che sei nel niente/ Niente sia il tuo nome/ Niente sia il tuo Regno/ Niente la tua volontà…».

Questa parafrasi del Padre Nostro, la più aspra che mai abbia osato la letteratura è pronunciata dal cameriere di un bar nel racconto di Ernest Hemingway «Un posto pulito e illuminato bene». Lo fa a tarda notte, dopo che con un collega più giovane si era trovato a gestire un avventore anziano, reduce dal tentativo di un suicidio, che aveva ingollato un brandy dopo l’altro. Siamo tra la fine degli anni Venti e gli inizi degli anni Trenta del secolo scorso. Hemingway scrisse il racconto quando Hitler saliva al potere. Il nulla stava avanzando impetuoso. Oriana Fallaci, nel 1969, riprese il tema dopo i suoi reportage dal Vietnam con il libro «Niente. E così sia». Il desiderio di luce e di pulizia di quel cameriere – un posto pulito e illuminato bene – era il residuo di speranza che rimaneva. E rimane ancora oggi, in questa prima parte di millennio dove instabilità e inatteso stanno diventando elementi strutturali delle nostre vite (guerre, pandemie, crisi economiche).

Siamo nell’Anno giubilare della speranza, che papa Francesco basa sui testi paolini. Spes non confundit, la speranza non delude. Comunicarlo, in modo convincente, diventa anche una preziosa virtù civica: un imperativo categorico, un ingrediente deontologico. Ho contribuito alla mostra itinerante “Comunicare la speranza. Un’altra informazione è possibile” promossa dalla Società San Paolo e dalla Figlie di San Paolo e inaugurata in Vaticano proprio durante il Giubileo della comunicazione. L’impegno per una comunicazione di speranza – questo è il ragionamento che ha guidato me e il collega Gerolamo Fazzini con cui ho lavorato ai testi – è una passione che supera il confine tra credenti e non credenti. È passione civica per la ricerca della verità, per la difesa convinta della democrazia.

Mi preme ancora un aspetto: “il registro” della comunicazione. Siamo chiamati a vivere questo tempo presente e a volergli bene, rendendo ragione di ciò in cui crediamo, soprattutto della “speranza che è in noi” (1Pt 3,15). Ma come? Senza sentirci cittadella assediata e pronti a graffiare. Un allora giovane teologo subalpino, Roberto Repole, nel 2010 aveva opportunamente parlato di via humilitatis, la via dell’umiltà. Sì, perché la comunicazione, ci insegna la Bibbia, è una postura autorevole che affonda le radici in una buona relazione con l’altro.

giornalista e saggista


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