Dopo 15 anni di presenza fedele e faticosa, tormentata e feconda, padre Jean Marie Lassausse, prete della Mission de France, ha lasciato all’inizio di settembre il monastero di Tibhirine in Algeria. Ha passato le consegne – anche se continuerà a garantire un accompagnamento per qualche mese – a un’équipe di Chemin Neuf che dovrebbe dar vita a una nuova presenza comunitaria nel monastero, dove vent’anni fa vennero rapiti e poi uccisi sette monaci trappisti. Il condizionale, quando si tratta di Algeria e specialmente di Tibhirine, è sempre d’obbligo.
Misure di sicurezza stringenti e difficoltà a ottenere i visti o a vedersi rinnovati i documenti di soggiorno, continuano a mantenere questo luogo-simbolo della Chiesa algerina e della Chiesa universale in una condizione di estrema precarietà. «È una strana sensazione lasciare il monastero di Tibhirine dopo tre lustri – riflette padre Jean Marie –; certo, sentivo la fatica di una vita a lungo solitaria e soprattutto il peso di misure di sicurezza che in questi ultimi tempi impedivano qualsiasi movimento. Ma, allo stesso tempo, questi quindici anni sono stati soprattutto di grande bellezza: lavorare, camminare, pregare nel solco di fedeltà e fraternità aperto dai monaci… È stata un’esperienza molto arricchente per me.
Che mi ha cambiato molto». Anche il monastero è cambiato in questi anni. Soprattutto dopo l’apparizione del film Uomini di Dio, che ha attirato nuova attenzione e nuovo interesse sulla vicenda dei monaci e sul senso della loro presenza in quel luogo. «Per qualche tempo, le porte del monastero si sono aperte a migliaia di visitatori – conferma padre Jean Marie –: pellegrini provenienti da diverse parti del mondo, cristiani che vivono in Algeria, ma soprattutto algerini musulmani, che conservano il ricordo dei monaci e in particolare di fratel Luc, il medico che ha curato moltissime persone di questa vasta regione». Oggi, a causa dei problemi di sicurezza, il numero dei visitatori (soprattutto stranieri) è diminuito. Ma Tibhirine continua a essere un luogo di incontro e di lavoro.
E padre Jean Marie, che è anche agronomo, è particolarmente fiero del modello di coltivazione biologica che ha sviluppato in questi ultimi anni e che è diventato un punto di riferimento per tutta la regione di Titteri. Questa terra di Tibhirine, in cui ha messo letteralmente le mani per quindici anni, ma anche la sua gente – gente di montagna, all’apparenza dura e tradizionalista – sono radicati nel profondo del cuore di padre Jean Marie. Che tra i ricordi più commoventi evoca le celebrazioni per il ventesimo anniversario della morte dei monaci e in particolare il cous cous serale con la popolazione del villaggio.
«Da vent’anni non veniva organizzata una cosa del genere – ricorda – e non avevamo nessuna idea circa la risposta del villaggio, anche perché le autorità avevano predisposto un servizio di sicurezza imponente. Invece sono venuti tutti, una settantina di giovani e uomini che, come se non fosse passato tutto quel tempo, hanno cominciato a rievocare l’uno o l’altro monaco, l’uno o l’altro aneddoto. In più, c’erano le famiglie dei trappisti, gli amici di lunga data del monastero, i padri abati… Sono state giornate cariche di emozioni. Non sarebbero potute andare meglio di così!».
Più in generale, però, tiene a precisare padre Jean Marie, lo spirito di Tibhirine «non è più legato solo a questo luogo fisico. È qualcosa che lo trascende e che è diventato patrimonio di tutta la Chiesa e anche di tante persone di altre fedi o non credenti sparse per il mondo. È il segno di una convivenza possibile e di un dialogo tra credenti di fedi diverse, ma è anche una testimonianza di amore fedele, che continuerà ad attraversare il tempo e i luoghi. E che certamente mi ha segnato nel profondo».