Il perdono di suor Leonella Sgorbati ha già dato frutto, il giorno stesso del martirio. Ed è un frutto dal sapore ecumenico, com’era nello stile della religiosa, capace di dialogo con tutti. Lo rivela suor Renata Conti, Missionaria della Consolata e postulatrice nel processo di beatificazione.
Suor Renata, quando ha incontrato l’ultima volta suor Leonella?
Era il maggio del 2006. Mi trovavo in Kenya per la Conferenza regionale della Congregazione e suor Leonella era arrivata dalla Somalia per partecipare. Una sera abbiamo parlato a lungo della situazione a Mogadiscio. Disse anche a me la frase poi rimasta celebre: «Penso ci sia una pallottola con scritto sopra il mio nome».
Cosa la preoccupava?
L’ambiente si era fatto molto violento. Era stata imposta la Shari’a. Le cinque consorelle vivevano a contatto con la gente in ospedale e a scuola, ma per il resto erano isolate in casa; non potevano uscire se non accompagnate. I fondamentalisti non le vedevano di buon occhio, soprattutto Leonella, perché stava con i giovani. E i giovani della scuola infermieri le volevano un bene dell’anima. Tra loro però si erano infiltrati dei fondamentalisti. Nelle lezioni di anatomia le capitava di ricevere delle obiezioni; lei, Corano alla mano, dimostrava che quanto insegnava non andava contro la loro fede.
Cosa di suor Leonella conquistava i giovani?
Aveva un cuore straordinario: sapeva allacciare un rapporto diretto, gioioso. «Oggi la nostra luce si è spenta», hanno detto gli studenti quando è stata uccisa. Molti hanno voluto testimoniare al processo di beatificazione, ma non sono stati rivelati i loro nomi. È troppo pericoloso.
Come postulatrice invece cosa ha scoperto di nuovo di suor Leonella?
Leonella era una persona normalissima, ci si faceva di quelle risate insieme! Nessuna di noi immaginava che avesse una spiritualità così profonda. L’abbiamo scoperto leggendo i suoi diari.
Cosa più l’ha colpita?
Era radicale nel suo “sì” al Signore. La sua vita è stata un crescendo, in un dono totale di sé. Metteva l’altro al primo posto. Pensi che aveva solo due abiti, uno che indossava e l’altro per cambiarsi, e due paia di scarpe. Era francescana nel suo modo di vivere la povertà.
Le ultime parole 'perdono, perdono, perdono' sono il culmine di questo cammino... Suor Leonella ha guardato in faccia chi l’ha uccisa, lo ha riconosciuto: l’hanno confermato gli studenti. Alcuni si erano messi all’inseguimento di chi aveva sparato, Leonella se n’era accorta. «Dite di non ucciderlo, è solo un povero ragazzo», ha chiesto con un fil di voce. Ecco: il perdono era già avvenuto qui.
Questo perdono ha già dato qualche frutto?
Alcuni mesi dopo la morte, abbiamo ricevuto una lettera dal signor Nigel Baldwin, inglese, cristiano anglicano. Ci ha confidato che, nonostante gli sforzi, non riusciva a perdonare un conoscente, ormai defunto, che gli aveva fatto un torto. Da trent’anni soffriva per l’offesa ricevuta. Sentendo dell’uccisione di suor Leonella, quella stessa domenica 17 settembre 2006 aveva acceso una candela per lei nella sua chiesa. «Pensando alle parole di suor Leonella e applicandole nella preghiera – ci ha scritto – mi è sembrato di scacciare via lo spirito di amarezza. Per cui “perdono” non è stata solamente la parola ultima e definitiva di suor Leonella al mondo, ma è stata anche la sua parola a me».
La morte di suor Leonella ha causato la partenza della comunità da Mogadiscio. Esperienza chiusa? Non abbiamo chiuso, abbiamo sospeso – sottolinea il concetto con un largo sorriso suor Renata –. Ora non c’è possibilità di tornare. Ma siamo pronte a farlo.