Quando ha letto che il documento dell’episcopato italiano «Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno» è «frutto dell’apporto qualificato dei Centri di studi meridionali», Nino Novacco, presidente della Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno») dal 2005, con una punta d’orgoglio, si è sentito chiamare in causa. In un certo qual modo, queste parole dei vescovi sul Mezzogiorno se le aspettava. Ci spiega per quale motivo.
Perché è importante?Non solo perché viene dopo 20 anni dall’ultimo, ed era desiderato, ma perché nasce dopo una trasformazione profonda della società italiana. È figlio di una storia lunga. Il suo punto di partenza è importante: il perdurare della questione meridionale, anche se non nelle medesime forme e proporzioni del passato. Ci sono stati comunque mutamenti molto deboli. Non c’è stata in primo luogo una riduzione del divario Nord e Sud. È però importante che si sia posto di nuovo il problema della questione meridionale come questione nazionale, con tutti i problemi che pone in generale nel Paese, e il riferimento ai 150 anni dell’Unità italiana ci trova sicuramente attenti.
Ma perché ci ritroviamo a parlare ancora di questione meridionale?Perché è l’unica vera grande questione che mette in discussione l’unità del Paese. È rimasto soltanto il presidente della Repubblica, con pochi altri, a parlare del rischio che sta correndo l’unità nazionale, proprio perché non mettiamo in evidenza che i mutamenti avvenuti nella politica hanno prodotto un cambiamento nella democrazia che non è più quella degli anni Ottanta o Novanta. Ci ritroviamo ogni giorno a contrastare i poteri, l’accentramento, il verticismo, eccetera. È una democrazia che non si articola e non rispetta in qualche modo le regole profonde. Questo è l’aspetto grave.
Ma perché non si è risolta la questione meridionale?Perché non c’è stato un vero sforzo. La Cei ci induce a ragionare su cosa è avvenuto negli ultimi venti anni dopo la fine della Cassa del Mezzogiorno che fu un passaggio molto importante a cui si dà per la prima volta, anche da parte della Chiesa, un riconoscimento significativo. C’è stato nel Paese anche un "gioco delle forze". La Fiat, ad esempio, riusciva a ottenere che in pochi anni nascesse un sistema autostradale perché era strumentale a lanciare in Italia la produzione automobilistica. Non ci fu nulla di simile nel Mezzogiorno che valesse come corrispettivo, salvo quel poco che si fece con la Riforma agraria. Nemmeno il turismo fu promosso.
La Cei dà adesso alla gente del Sud un ruolo da protagonista, come dire: il Sud salva se stesso.È un bel segnale di fiducia, però – per capirci – un tetraplegico non può muoversi da solo. Lo sviluppo dei deboli e dell’economia debole deve essere sempre aiutato, assistito, guidato, sostenuto. Un aiuto comunque corretto, senza sciupi, rigettando anche certe valutazioni che vengono fatte di tanto in tanto, come quella di un Nord "mangiato" dal Sud. È una sciocchezza colossale e priva di senso perché non c’è un’area arretrata che non si muova "con": con qualcun altro.
Gli americani fecero così...E fu una lezione. Roosevelt nel ’33, con la
Tennesee Valley Authority o la
Columbia River, quando ci furono delle emergenze, creò strutture centrali in un Paese federale, e non solo federalista. E furono i poteri statali a mettere insieme una serie di strategie per risolvere problemi di grave disagio. Da noi strategie analoghe sono state semmai funzionali ad altri interessi e non al bene strategico dell’unificazione nazionale. Quindi il divario nazionale è rimasto in qualche modo invariato.
Il documento Cei parla di auto-propulsività dello sviluppo...I governi di questo non si fanno carico. Pensano piuttosto ai voti, cioè allo sfruttamento politico di quello che fanno. Il documento ha la straordinaria capacità di affermare che un problema determinante è quello dei limiti per la presenza nella società di forze e comportamenti fuori dalla legge.
La Chiesa infatti denuncia l’illegalità mafiosa che frena lo sviluppo.Direi che fa di più. Anche se solo in una nota, citando una nota della Conferenza episcopale di Sicilia del 2010, si dice per la prima volta che «tutti coloro che in qualsiasi modo, deliberatamente, fanno parte della mafia e a essa aderiscono, devono sapere di essere e di vivere in insanabile opposizione al Vangelo di Gesù Cristo e, per conseguenza, di essere fuori dalla comunione con la Chiesa». Questo è un richiamo forte. La Chiesa, che conosce benissimo la situazione e ha il potere morale di incidere su queste realtà, s’era pronunciata in passato con cautela. Questo mi pare sia il documento più preciso e definitivo sull’argomento.
Quanto alle soluzioni, la Cei richiama a una dimensione più profonda di carattere etico. Un monito che pare rivolto ai giovani, in primo luogo.Oggi sono loro le vittime maggiori del cambiamento che sta avvenendo nella società. Ma il messaggio che lanciamo ogni giorno ai giovani chi lo gestisce, oltre alla Chiesa? Questo è il vero problema. Siamo in una situazione di grave crisi che nel documento è denunciata con grande attenzione e pertinenza.