Ho trascorso diversi Natali in missione. Ne ricordo tre che ne esprimono il significato in diverse sottolineature: che il Bambino Gesù porti a tutti la pace e la serenità di vita; che ci faccia ritrovare l’entusiasmo della fede per essere anche noi missionari di Cristo; che ci stimoli a non dimenticare i poveri, in ciascuno dei quali c’è Gesù.
I FUOCHI DEL VIETNAM
Il Natale ispira pensieri di pace, ma vi sono tante guerre nel mondo. Ho passato diversi Natali in guerra. Ricordo il più drammatico, quello del 1967 in Vietnam. Ero a Kontum, la città più importante degli altopiani del Vietnam del Sud, attorno a cui ha infuriato per lunghi anni la guerra. Il vescovo monsignor Paul Seitz mi dice: «Ti mando a passare il Natale a Dak-To, dove da più di tre mesi non riusciamo ad andare perché la guerra ha tagliato la strada. Là c’è un missionario francese isolato con i suoi cristiani, sarà contento che tu vada a trovarlo nei tre giorni di tregua».
Così sono partito con una jeep della missione, un padre francese dei Mep (Missions Etrangères de Paris) e due giovanotti. Abbiamo impiegato tutta la mattina della vigilia di Natale per fare gli 80 chilometri fra Kontum e Dak-To: una strada piena di buche, diversi villaggi bruciati, la gente era sulla strada e ci salutava, portavamo sul fronte della jeep due croci bianche. La tregua era ben rispettata, ai posti di blocco dell’esercito sudvietnamita e dei vietcong passavamo facilmente.
Quando siamo arrivati a Dak-To, nel pomeriggio, padre Arnould ci accoglie a braccia aperte. Gli portiamo la posta, un po’ di medicine e altri rifornimenti. Il grosso villaggio di Dakto, a fondovalle, è tutto imbandierato: quella povera gente, circa 2mila tribali venuti dalle foreste vicine, cerca di dimenticare, almeno per pochi giorni, che c’è la guerra. L’indomani sarebbe stata una giornata memorabile, con danze, musiche, giochi popolari, cerimonie religiose. E soprattutto una giornata di pace. Ma mentre il cielo sta scolorendo e luccicano le prime stelle della notte di Natale ecco che, come un fulmine a ciel sereno, un tonfo improvviso, agghiacciante, rompe la quiete della notte. Un tuono? Un colpo di mortaio? Usciamo correndo all’aperto e si spalancano le cateratte dell’inferno, il cielo s’infiamma di lampi, la terra trema per i colpi di maglio di un’artiglieria che sembra impazzita. La tregua è rotta, avremo un altro Natale di guerra.
Il villaggio di Dak-To è nella valle, con americani a destra e nordvietnamiti sulle colline di sinistra che si sparano sulla nostre teste: nella notte buia, le strisce luminose dei proiettili infuocati attraversano il cielo e scoppiano sulle colline di fronte. Se non fossero scoppi di morte, sembrerebbe uno spettacolo di fuochi d’artificio, nella notte in cui è nato il Signore. Che notte santa abbiamo passato. E che Messa di mezzanotte, con i Banhar tremanti, donne e bambini con gli occhi lucidi e imploranti: «Signore, salvaci da questo inferno». Verso le quattro di mattino, un ufficiale americano viene a dirci che dobbiamo metterci in cammino verso le linee sudvietnamite, perché, presi di sorpresa, non potevano tenere a lungo il fronte. Il giorno di Natale 1967, duemila persone in fuga verso Kontum: uomini, donne, bambini, malati, vecchi, su carri agricoli, a piedi, con i bufali e i piccoli cavalli delle montagne vietnamite. La fuga, più volte bloccata dai combattimenti, dura cinque giorni: solo in 1.800 giungono a Kontum, con numerosi feriti.
Quando nella notte di Natale noi cantiamo con gli angeli «Gloria a Dio nell’alto del cieli e pace in terra agli uomini che egli ama», ricordiamoci che nel mondo sono in corso una ventina di guerre grandi e piccole: sono il segno dell’egoismo dell’uomo, della nostra mancanza di amore. Siamo tutti responsabili delle sofferenze che la guerra porta a milioni di fratelli e sorelle.
LA MUSICA DEL CIAD
In Ciad, povero Paese appena a Sud del deserto del Sahara, la maggioranza della popolazione è costituita da musulmani o animisti, i cristiani piccola minoranza. Ma il Natale è vissuto da tutti come una festa. La capitale Ndjamena è una città del deserto, caldo e sabbia anche a Natale. La chiesa parrocchiale del quartiere periferico di Kabalaye, costruita e gestita dai gesuiti lombardi, è un’imponente costruzione ad anfiteatro, con una cupola ovale dalle ardite nervature in leghe metalliche leggere, le mura in cemento armato, il tetto di fogli di plastica. Nella vigilia del Natale 1976, il vasto cortile e la chiesa si riempiono di popolo, comunità di villaggio che vengono anche da lontano. A sera, quando manca ancora un’ora all’inizio della Messa, già nella chiesa non entra più nessuno e nel cortile sono accampati centinaia di fedeli.
La gioia della festa e del ritrovarsi assieme esplode ben prima di mezzanotte. Il popolo cristiano, che viene da un anno di isolamento, fatiche e miserie, si scatena nel canto, nelle danze, nella percussione dei tamburi e dei balafon, nel suono dei pifferi. L’interno della chiesa di Kabalaye è un mare in tempesta: la gente canta tutta assieme, molti danzano, ciascuno fa più rumore che può battendo ritmicamente le mani e i piedi per terra nell’accompagnare i canti della corale, i nostri antichi canti natalizi tradotti nelle lingue locali. La gioia è straripante, contagiosa, acre e densa la polvere che si alza dal pavimento, il ritmo dei tamburi e dei balafon travolgente.
In sacrestia siamo quattro sacerdoti pronti ad uscire per la Messa. Ma come si fa, in quella baraonda? Il massiccio e torreggiante fratel Antonio Mason sale sull’altare, abbranca il microfono, fa segni imperiosi di tacere e grida: «Silenzio! Basta! » nelle tre o quattro lingue africane che conosce, oltre che in francese. Ma nessuno se ne dà per inteso. La sua voce possente è ridicolizzata dal frastuono che quelle centinaia di africani producono tutti assieme. Cupola e pareti della chiesa tremano, sembra stia per crollare l’intera struttura del grande anfiteatro di Kabalaye. Antonio torna in sacrestia sconfitto, sudato, sgolato. «Lasciamoli sfogare ancora un po’», dice. Non si può fare altro. Intanto, quella fonte di decibel impazziti che è la parrocchia di Kabalaye (chiesa e cortile), ha attirato un’ondata di curiosi musulmani e animisti. Vengono a vedere l’esplosione di gioia che il Natale è capace di suscitare nel popolo cristiano. «Ecco un modo originale di annunziare il Vangelo in Africa – dice il parroco, padre Corrado Corti –. Sono convinto che questa espressione autentica dell’unità e della gioia di un popolo, per i musulmani e gli animisti vale più di tutte le nostre prediche sul Natale».
I DONI IN GUINEA-BISSAU
Natale 1987. Sono in Guinea-Bissau, povero paese dell’Africa occidentale. La notte di Natale vado con padre Giuseppe Fumagalli, missionario del Pime, a celebrare la Messa in un villaggio della tribù felupe, Edgin: un villaggio isolato nella foresta, dove c’è una bella chiesa in muratura. La chiesa strapiena di gente giunta anche dai villaggi vicini: sono venuti anche i musulmani e gli animisti per vedere la festa dei cristiani. Notte stellata d’incanto, con canti, danze, scambio di abbracci, testimonianze al microfono di felupe che, prima della Messa, raccontano il cammino compiuto per giungere al Battesimo.
Quando andavo in paesi poveri portavo sempre due chili di caramelle italiane. Quella notte di Natale, Fumagalli mi dice: ci saranno una cinquantina di bambini. Ne ho portate sessanta. Dopo la Messa, dinanzi alla chiesa, alla luce di due fari potenti, padre Giuseppe chiama tutti i bambini e dice loro di mettersi in fila perché io avrei dato a ciascuno una caramella. Grida di gioia, eccitazione, salti di esultanza. Ma i bambini escono da tutte le parti e io vedo subito che sono ben più di sessanta. «Niente paura», dice padre Giuseppe e fa mettere i ragazzi a due a due. Così passo col mio sacchetto dando una caramella ogni due bambini, che la scartocciano e la succhiano un po’ l’uno e un po’ l’altro, senza bisticciare, dividendosi il piccolo dono proprio come fratelli.
Mentre li guardo succhiarsi una caramella in due, penso: in questa notte di Natale, in Italia, nella mia Milano, i bambini hanno molto di più, doni, dolci, musiche, regali, ma spesso non trovano un fratellino con cui condividere quei doni. Mi chiedo: saranno felici come questi piccoli africani, che hanno gli occhi lucidi dalla gioia, seduti per terra a dividersi una caramella in due? La parola più comune usata in Guinea-Bissau è «parti», di origine portoghese, che significa dividere, condividere. Nella povertà, tutto è comune, c’è la spontanea condivisione di quel poco che si ha. A me è capitato di dover attendere il traghetto per quasi un’intera giornata. Niente paura, in Africa bisogna saper aspettare. Per il cibo non c’è problema. Vi sedete vicino a chi sta mangiando e vi dà qualcosa con la massima naturalezza, senza nemmeno dover chiedere. Perché i popoli poveri sono più disponibili alla condivisione di noi che siamo ricchi? È facile rispondere: chi è povero ha poco da perdere, chi è ricco perde molto, è più attaccato a quello che ha. Ma c’è un motivo più profondo: la povertà educa a capire l’altro, a essere ospitali e attenti verso chi soffre. Direi che educa anche alla gioia, alla serenità della vita. Non parlo della povertà disumana che diventa miseria e mancanza del necessario, ma del non avere troppo, del non essere attaccati alle ricchezze materiali, del dare più importanza ai valori umani (fraternità, amicizia, condivisione, aiuto al prossimo) che non all’inseguimento del denaro e del superfluo. L’egoismo è la tomba di ogni gioia e serenità di vita. E i ricchi attaccati alle loro ricchezze sono, molto spesso, più egoisti dei poveri. Ecco perché Gesù dice «Beati voi poveri, perché Dio vi darà il suo Regno».