La prima piccola ospite entrò nella casa 5 anni fa. Anche lei, come tutti gli altri che la seguirono, era stata abbandonata dai genitori e aveva gravi disabilità. Oggi sono 20 i bambini che abitano nella «Hogar Niño Dios», la casa del Dio bambino, a Betlemme, a pochi passi dalla basilica della Natività. Nell’edificio che il patriarcato latino di Gerusalemme ha concesso – per un tempo illimitato – alle suore del Verbo incarnato, il primo dovere è accogliere tutti. Il carisma di padre Buela, nato nel 1984, conta tanti religiosi e religiose diffusi in 40 Paesi in tutto il mondo. Fin dall’inizio le suore della congregazione si sono dedicate alle opere di carità, e nella casa di Betlemme lavorano da 5 anni per testimoniarla a bambini handicappati senza più genitori. Non importa di quale religione. In questo paese dell’antica Palestina non esistono crociate o guerre sante. Quando tutti condividono le stesse pene, sono i problemi a unire gli animi.
«Alcuni vivono davvero in condizioni disastrose », ci racconta suor Maria della Santa Croce, che vive a Betlemme da 3 anni. Mentre ci accompagna lungo i locali della struttura, vediamo avvicinarsi un bambino, si trascina da terra con le mani, perché le sue gambe non gli permettono di reggersi in piedi. Avrà cinque, sei anni al massimo. «Si chiama Firas – ci spiega la suora – ed è un bambino che viene da una famiglia cristiana. Conosciamo i genitori, ogni tanto vengono a trovarlo, ma non può tornare a casa». Anche se la famiglia è cristiana «la cultura dominante è quella musulmana: Firas ha una sorella perfettamente normale, e se tra i coetanei si venisse a sapere che ha un fratello disabile non avrebbe più possibilità di sposarsi. Per questo i genitori hanno deciso di abbandonarlo ». Spesso le suore vanno a parlare anche con la famiglia. «Cerchiamo di convincerli che ogni bambino è un dono di Dio, e a riprenderseli in casa. Ma è difficile, molto difficile. Fino a oggi nessun bambino è riuscito a tornare dalla sua famiglia». E alcuni non torneranno mai, purtroppo. La suora ci indica una ragazza sui 25 anni, di famiglia musulmana. «Lei è Nadira, è qui da tantissimi anni. Ha un ritardo mentale grave, e quando era piccola è stata violentata dal fratello ». Nadira abbraccia suor Maria, ma con noi è timida, si ritrae per pudore. «Quando sua madre l’ha saputo ha denunciato il fratello, ma per il padre la bambina si è macchiata di adulterio e se torna a casa, la deve ammazzare». È una delle tante, crudeli, leggi di questa società.
Nell’idea della gente, una ragazza disabile in un Paese musulmano ha lo stesso valore di un oggetto. «Per questo vengono abbandonati, alcuni anche due volte. Da qualche mese abbiamo accolto questa bambina, Zahira, è stata abbandonata dai genitori naturali perché è schizofrenica. I servizi sociali l’hanno poi consegnata a una famiglia adottiva. Ma appena si sono accorti che era schizofrenica, anche i genitori adottivi l’hanno lasciata in strada». Le uniche che l’hanno accolta sono state le suore.
Per questo i rapporti con i vicini musulmani sono ottimi. «Quando ci vedono per la strada ci salutano sempre, ci ringraziano per il lavoro che facciamo, hanno una grande stima di noi». A volte non capiscono perché si adoperino tanto per aiutare persone che non conoscono, e gratuitamente. Non comprendono, ma stimano queste cinque donne col velo che 24 ore al giorno, per 7 giorni alla settimana curano instancabilmente gli ultimi della società.
Il pomeriggio sta finendo e il sole cala dietro la «culla della cristianità» che le vicende dei secoli hanno reso irripetibile nel suo paesaggio. Ogni bambino ha una storia che andrebbe raccontata. Una storia che nella maggior parte dei casi è segnata da sofferenza e violenza. E nonostante tutto, è una parola di speranza che accoglie chiunque entri in casa. È la frase del salmo 68, inciso su una targhetta che ricorda l’inaugurazione di questo orfanotrofio della carità. Mentre ci avviciniamo alla macchina, è la suora a ricordarcela: «Anche ai derelitti Dio fa abitare una casa».