Giotto, Morte di san Francesco (1295-1299), Storie di san Francesco della Basilica superiore di Assisi - .
Pubblichiamo il testo integrale dell’intervento tenuto dall’arcivescovo- vescovo di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino e di Foligno, Domenico Sorrentino, al convegno “Tra Frate Sole e Sorella Morte, il Cantico da San Damiano al Vescovado, una riscoperta verso il 2025” che si è tenuto lo scorso sabato 18 maggio ad Assisi nella chiesa di Santa Maria Maggiore-Santuario della Spogliazione in occasione delle iniziative organizzate per il settimo anniversario dell’inaugurazione dello stesso Santuario. Al convegno sono intervenuti anche il poeta Davide Rondoni, presidente del “Comitato nazionale per la celebrazione dell’ottavo centenario della morte di San Francesco d’Assisi” e il frate conventuale padre Felice Autieri.
Che cosa succede al Cantico di Frate Sole se lo leggiamo a partire dalle due ultime strofe? Le sei strofe riguardanti gli elementi materiali sono ben note. In questo tempo in cui l’istanza ecologica si è fatta drammatica, aver riscoperto la profezia di Francesco d’Assisi anche sotto questo profilo induce a concentrare ancor più lo sguardo su di esse. Le due ultime strofe finiscono per essere quasi dimenticate. Persino imbarazzanti. Con esse, in effetti, lo scenario cambia radicalmente. Quale continuità tra lo sguardo ammirato, e quasi trasognato, con il quale Francesco si porta sugli elementi del cosmo e il tono esortativo e persino severo delle due “finestre” che si aprono alla fine sulla sofferenza e sulla morte? Intorno a frate Sole e sora Luna, frate Vento e sora Acqua, frate Focu e sora nostra Madre Terra, le attribuzioni elogiative si incalzano. Francesco coniuga la lode del Creatore e l’apprezzamento per la creatura. Nello scenario dell’umano, tutt’altra aria. Dopo tanta “estasi”, ci saremmo aspettati che Francesco indugiasse – almeno in parte – su qualche lato più bello della realtà umana. E invece qui il giullare di Dio si lascia attirare dagli aspetti più duri della realtà: la fatica della convivenza, infermità e tribolazione, l’esistenza minacciata dalla morte.
È un altro Francesco? In effetti, quando si pensa alla nascita del Cantico, secondo la classica narrazione di Tommaso da Celano, nell’incanto paesaggistico di San Damiano e in quello, ancor più toccante, della premura di Chiara per Francesco, ci si trova perlomeno spaesati quando si passa dall’idillio al dramma. La questione dell’unità della composizione è risolta dagli storici distinguendo lo sfondo e i tempi in cui nascono i due tipi di strofe: le prime, naturistiche, hanno il loro grembo a San Damiano, e le altre, umanistiche, richiamano altro tempo e luogo, e ruotano in qualche modo intorno al vescovado. N on sono tuttavia due Cantici. Le due parti vanno comunque lette insieme. E pertanto, al di là della ricognizione storico- redazionale, mi pare interessante notare come cambi la percezione generale del Cantico se lo mettiamo “a testa in giù”. Proviamo a collocarci nella prospettiva dalla penultima strofa. Essa fu composta per essere cantata in occasione dell’incontro del podestà Oportulo e del vescovo Guido II divisi da aspra lite e reciproche intimazioni. Due uomini di potere l’un contro l’altro armati. La città divisa. Sulle note del Cantico, i due si riconciliano fino all’abbraccio. Così il racconto. Il fondamento storico c’è, ma non senza qualche interrogativo. Non è un po’ troppo immaginare l’effetto riconciliativo legato alle sole note di un canto? Tanto più che – a ben leggere la strofa – essa al perdono dedica parole, sì, importanti, ma rapide e quasi en passant. “Beati quelli ke perdonano per lo tuo amore”. Forse parole aggiunte in secondo tempo, come qualche critico sostiene. Il discorso passa subito, e ben più estesamente, dal perdono alla sofferenza sopportata “in pace”. Se il perdono promette la beatitudine, la sopportazione promette l’incoronazione: “da te, Altissimo, sirano inkoronati” Che sensazione dà, l’intero Cantico, guardato dalla finestra della penultima strofa?
Certo, da qui il sole sfolgorante dell’inizio appare molto lontano, come coperto da una nube. La luce è guardata attraverso le lenti del dolore. Se una connessione c’è, essa è dialettica, e non lineare. Lo sguardo proteso verso il sole è ascensione, ascensio hominis ad Deum; la beatitudine offerta a chi perdona, e la “corona” a chi soffre “in pace”, sono la descensio Dei ad hominem. Il sole incarna la gloria di Dio. Il dolore evoca la sua compassione per l’uomo. Quello che si può dire del sole, visto dal basso della sofferenza, vale a maggior ragione per tutte le creature che seguono, fino a “sora nostra Madre terra”. Quest’ultima, nell’enumerazione degli elementi, è il vertice. Sull’onda dell’ottimismo precedente, è la terra vestita a festa, come nell’Eden, la terra che “sostenta e governa” e produce “coloriti flori et herba”. Non è certo la terra dei terremoti e degli eventi estremi. È terra che volteggia nel cielo azzurro. Ma la strofa che segue la riporta, per così dire, con i “piedi per terra”. Si passa dalla terra contemplata ecologicamente alla terra contemplata biblicamente alla luce di Genesi 3, 18 (“triboli e spine” causati dal peccato), o alla terra contemplata nell’ottica del parto dalla Lettera di Paolo ai Romani c. 8: terra che “geme”. Qui, ormai, dell’immenso e trionfale fascio di luce solare non resta che il raggio flebile dell’accoglienza del dolore, un raggio che illumina la conversione del cuore portandolo alla pace. Qui è protagonista la sofferenza nel farsi tessitura laboriosa di una nuova armonia per un mondo che il peccato ha lacerato. Anche a tralasciare l’ultima strofa, quella sulla morte, basterebbe la finestra aperta sulla sofferenza a farci rileggere l’intero Cantico in una prospettiva che scaccia ogni tentazione di un approccio ecologistico separato dall’umano e tutto giocato sui colori dell’idillio.
In realtà le fonti sono concordi nel porre, sullo sfondo dell’intero Cantico, l’immagine di un Francesco angustiato e dolente, che trova la forza di cantare la bellezza proprio dalla capacità di accettare la sofferenza: è la bellezza “filtrata” e quasi purificata dal Venerdì Santo che guarda alla Domenica di Risurrezione. Soprattutto nelle ultime strofe il Cantico assume il suo colore più specificamente cristiano, anzi, decisamente “pasquale”. Le lodi della natura, senza le ultime due, potrebbero costituire una preghiera comune alle diverse religioni. Nelle ultime strofe, è prepotente l’aria del Vangelo. Due strofe storicamente concepite per il vescovado di Assisi, o addirittura dentro di esso, in quello che oggi si chiama “Santuario della Spogliazione”. Non è mancato chi, come il francescano conventuale Giuseppe Abate, negli anni ’50 del secolo scorso, con argomenti puntigliosi, ha sostenuto che l’intero Cantico fu concepito in vescovado. A me sembra eccessivo. Ritengo ben fondata la prospettiva della composizione articolata, tra parte naturistica e parte umanistica, tra San Damiano e vescovado. Seguirei invece decisamente Abate lì dove sostiene che Francesco, in occasione della riconciliazione di Vescovo e podestà sulle note del Cantico, risiedesse in vescovado, come era accaduto altre volte, e come accadrà l’anno seguente, quando vi resterà almeno per un mese prima della sua discesa alla Porziuncola per l’ultimo respiro. Sono aspetti sui quali si potrà discutere, in sede di dibattito storico. È certo, tuttavia, che andando verso l’anno centenario del Cantico (2025), questa immortale creazione di Francesco, il Cantico di frate Sole, non potrà essere rivisitata se non in questo suo messaggio globale, ben incastonato, per le strofe sulla natura, nella spiritualità francescana della lode, sgorgante a San Damiano, e per le ultime due, nella prospettiva, esistenziale e sofferta, che si delinea sullo sfondo del vescovado e del rapporto tra Francesco e il suo vescovo, che sta da alcuni anni ritornando alla luce. arcivescovo-vescovo di Assisi-Nocera Umbra -Gualdo Tadino e di Foligno.