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«Dio non è nel Santuario, ma nella vita» che è una «parola ricorrente nelle Scritture». Il cuore è quindi «il luogo migliore per adorarlo». Lo si incontra anche «nell’orfano, nello straniero, nella vedova»: la sua «triade preferenziale». Senza questa umanità, i soli «luoghi fisici possono indurre in errore».
Con parole puntuali padre Ermes Ronchi è intervenuto alla 74ª Settimana liturgica nazionale che si conclude questa mattina a Modena.
Il biblista ha fatto riferimento ai libri di Amos, Geremia e Osea per sottolineare l’origine del contrasto tra «la religione sacerdotale e quella dei profeti». Nelle Scritture la controversia si consuma proprio nei Santuari, che sono «luoghi di preghiera ma anche di conflitto» tra queste due anime. È un problema che persiste tuttora. «Tanti i pastori afoni – sostiene Ronchi, citando l’annuncio dell’angelo a Zaccaria –: è venuto meno l’ascolto della sua Parola, che è nel grido dei poveri e della madre Terra. E se non ascoltiamo le domande della vita diventiamo tomba della Parola di Dio».
È perciò necessaria la preghiera, che è «appassionata e sporca di vita». Soprattutto con i Salmi, che «ci invadono di carne dolente dicendo “io sono loro”». Cioè «l’anonimo che soffre in Libia, nelle Pianure dell’Ucraina, a Gaza o in un barcone».
La stessa parola, “preghiera”, evoca il termine latino Procus che è «colui che chiede al padre di famiglia una figlia in matrimonio». Il suo fine non è astratto «ma riguarda una persona, una ricerca amante, un eros primigenio, una bellezza desiderata: l’innamoramento di Dio».
Che fare dunque per riaccendere tale innamoramento? Come rianimare la passione verso la preghiera? Come rinsaldare oggi il legame tra popolo e sacerdoti? Se n’è discusso ieri, nei tre focus tematici che hanno coinvolto i duecento iscritti alla Settimana divisi in gruppi di lavoro. È stata una riflessione sull’attualità delle parole e dei gesti liturgici, l’importanza dello spazio e dell’iconografia e il ruolo della musica sacra nel favorire la preghiera.
I focus sono stati condotti da tre facilitatori: Valentina Angelucci, docente di liturgia all’Istituto di scienze religiose “Giuseppe Toniolo” di Pescara e autrice di diverse pubblicazioni; Marco Riso, ingegnere, architetto e docente al Pontificio ateneo di Sant’Anselmo e a La Sapienza; don Fabio Massimillo, liturgista e compositore.
«Corrispondono le affermazioni della liturgia al nostro modo di vivere?». È la domanda con cui Angelucci ha introdotto il confronto, richiamando a una partecipazione «più attiva e consapevole dei fedeli». La formazione liturgica, ha precisato, non è «un mero esercizio intellettuale ma coinvolge l’intera persona e abbraccia il popolo di Dio: dalla signora che va a Messa al giovane in cerca di risposte». Per tale ragione «l’ars celebrandi non si può ridurre a una ritualità, ma occorre una ministerialità sinodale. La celebrazione è un’arte e deve rimanere ancorata alla realtà del popolo che la vive». Nello stesso tempo, la partecipazione del popolo «non significa “fare qualcosa”, ma richiama a un processo di interiorizzazione che rende tutti corresponsabili. Tuttavia la corresponsabilità è scomoda, sia per il popolo che per il presbitero, perché richiede attenzione e correzione fraterna».
Secondo Marco Riso, questa partecipazione può essere stimolata anche dall’arte e dall’iconografia, che «rende visibile ai fedeli il mistero che la comunità celebra». Perciò senza «lo spazio non c’è azione liturgica e non si progetta una Chiesa senza tenere conto della comunità. Ogni progetto artistico e architettonico deve diventare azione pastorale». L’architetto ha posto l’accento anche sulla società contemporanea, «abituata al messaggio “mordi e fuggi”. Siamo sempre meno abituati al valore mistagogico dell’arte, che deve far riflettere. Oggi ci facciamo colpire da un’immagine sullo schermo di uno smartphone per poi andare oltre». Emerge così il bisogno dell’arte, di cui i cristiani hanno fatto uso «sin dalle origini, rappresentando le verità che professano e la bontà delle cose che vivono».
L’ultimo focus tematico è stato dedicato al canto sacro curato da don Fabio Massimillo. «Il canto sacro rinsalda il legame tra assemblea e altare – ha dichiarato –. Serve pertanto che l’assemblea si avvicini alla musica sacra, che ha un ruolo di evangelizzazione. È questa la novità introdotta dal motu proprio di Pio X “Tra le sollecitudini” e la Costituzione del Vaticano II, Sacrosanctum Concilium che riconoscono il canto come parte essenziale della liturgia».