L’enciclica
Caritas in veritate di Benedetto XVI lancia molti messaggi che ritengo vadano accolti, soprattutto da parte di chi opera nell’articolato mondo della cooperazione allo sviluppo. Ovviamente non ho la pretesa di fornire un esauriente commento di un testo così impegnativo e così intrinsecamente legato all’opera pastorale della guida della Chiesa cattolica, verso la quale non posso che esprimere il più ossequioso rispetto. Mi limito pertanto a sottolineare due spunti di riflessione, strettamente legati all’operato dell’Organizzazione non governativa che rappresento (Cisp-sviluppo dei popoli). Il primo e a mio parere più importante motivo di riflessione riguarda la necessità di adoperarsi affinché si sani la frattura tra economia ed etica. L’enciclica affronta questo tema sulla scia della dottrina sociale della Chiesa, ampiamente richiamata. Accanto al richiamo alla dottrina e in particolare alla Populorum progressio di papa Paolo VI, però, vi è anche l’evidenziazione delle novità del nostro tempo, e in particolare, di quella rappresentata dalla globalizzazione dell’economia. Il messaggio dell’enciclica è chiaro e ampiamente condivisibile: il mercato non ha in sé stesso la possibilità di assicurare che lo sviluppo economico si traduca in maggiore benessere per tutti. Servono regole, criteri e guide e, come anche papa Giovanni Paolo II ebbe a sottolineare, già dalla fine della contrapposizione tra due blocchi sarebbe servito un nuovo pensiero sociale ed economico. Anche alcune «tradizionali» distinzioni, quale quella tra settore profit e settore no profit hanno oggi minore importanza che nel passato; assume invece sempre più rilievo il tema della finalità ultima dello sviluppo, anche economico. Una società in cui non si produca profitto non ha obiettivamente chanches di sviluppo, ma la domanda che giustamente l’enciclica pone è: a quale scopo produrre profitto? Solo ai fini dell’arricchimento di pochi o anche e soprattutto al fine di rafforzare l’inclusione sociale, combattere la povertà, fare crescere il tessuto sociale e democratico di ogni società? Da qui nasce una seconda importante riflessione ispirata dalla lettura dell’enciclica: come conciliare l’apparente insanabile contraddizione tra il crescente bisogno di nuove e più solide regole, che non imbavaglino il mercato ma lo orientino verso fini sociali e di giustizia e la progressiva perdita di poteri e possibilità di controllo degli Stati nel contesto dell’economia globale? Qui ovviamente l’enciclica non indica un organico piano di azione, ma certamente traccia un percorso, al centro del quale vi è il rafforzamento della capacità di guida e di autorevolezza degli organismi internazionali, corroso da eccessi burocratici, scarsa trasparenza, eccessivi costi. Queste considerazioni sono a mio parere del tutto condivisibili e spero che il richiamo dell’enciclica venga accolto da tutti. Giustamente Benedetto XVI richiama anche le Organizzazioni non governative a tenere fede ai propri motivi ispiratori, rafforzare la propria trasparenza, assicurare che le risorse raccolte siano destinate a combattere la povertà e non ad accrescere i propri costi operativi. Anche in questo caso non posso che esprimere una convinta adesione al richiamo dell’enciclica. È ciò che l’enciclica non dice che dobbiamo tutti sforzarci di aggiungere: tradurre i richiami etici e le riflessioni in essa contenuti in criteri e regole per la cooperazione internazionale. C’è un grande bisogno di coerenza e valori forti, al cospetto del dramma della povertà estrema e della fame. Occorre richiamare le Organizzazioni delle Nazioni Unite ad una maggiore sobrietà ed efficacia, senza le quali rischiano di apparire sempre meno credibili agli occhi stessi delle popolazioni che intendono sostenere. Da parte nostra continueremo ad impegnarci per assicurare che ogni singolo euro investito per combattere la povertà vada a buon fine, assieme a quanti, governi, istituzioni, società civili, condivide lo stesso obiettivo.