Il luogo nei pressi di Agrigento dove il 21 settembre 1990 venne ucciso il magistrato siciliano all’età di 37 anni mentre si recava senza scorta in tribunale - Avvenire archivio
«Rosario Livatino è certamente un modello di umiltà, un giudice che non è carrierista, non ha secondi scopi, non è un giudice delle relazioni, anzi proprio per questo la Stidda ne decise l’uccisione. Un giudice che nel proprio impegno quotidiano è in grado di adempiere appieno ai propri doveri con l’onore che richiede la nostra Costituzione. Questo è l’insegnamento che noi magistrati ricaviamo dalla sua figura, importante soprattutto in un periodo per noi non facile».
Nel futuro beato la capacità di «saper conciliare Costituzione e Vangelo»
Il coraggio di «difendere i diritti quando sono aggrediti»
No ai «magistrati delle relazioni»: servono rigore e comprensione
Sono le prime parole del procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, nel commentare il “via libera” alla beatificazione del “giudice ragazzino”. E lo fa con commozione ricordando che «nel 1979 siamo entrati in magistratura con lo stesso decreto di nomina, lui come sostituto procuratore ad Agrigento, io a Milano». Poi torna a definire Livatino come «modello». «Aveva la capacità di essere vicino alle persone che soffrono, in grado di svolgere il proprio ruolo in modo da non dare sofferenza ma di comprenderla e contribuire a migliorare la società. Non giustizialista ma un giudice giusto. Ecco di cosa è stato modello e per questo è ancora più importante la sua futura beatificazione».
Ma chi era Livatino giudice e uomo di fede?
Il suo impegno è stato straordinario nell’ambito dell’attività giudiziaria, dove con rigore si è dedicato alle applicazioni della disciplina sulla confisca dei patrimoni mafiosi. E in questo modo si è reso inviso a una mafia che era abituata a poter operare con maggiore libertà, senza subire le conseguenze di quello straordinario strumento. Un impegno giudiziario ancor più sostenuto dalla fede. È come se il suo rapporto con la fede avesse consolidato il rigore nell’applicazione dei canoni della giustizia.
E come applicava Livatino la giustizia?
Una giustizia umana deve essere particolarmente vigile nei confronti dei mafiosi, ma anche in grado di capire. È questo l’aspetto più significativo di Livatino. Nelle parole Sub tutela Dei che scriveva nelle sue agende, riassume il suo impegno come credente e il percorso che deve seguire nell’applicazione della legge.
Ma certo non era tenero verso i mafiosi...
Interviene con la sua attività per difendere i diritti. Quindi i mafiosi, che sono i protagonisti dell’aggressione ai diritti fondamentali, primo fra tutti quello alla libertà, diventano i soggetti nei cui confronti la giustizia umana deve esercitare in pieno le proprie prerogative in linea con la difesa delle persone che soffrono. Sotto questo profilo assume ancor più rilievo la sua figura. Si muove perché sa che la mafia è il primo nemico della libertà e quindi dello sviluppo e della personalità di ciascuno. Mentre scrive «quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili», dimostra la sua capacità di non giustificare determinate condotte con la fede o con la sua apparenza. La sua fede non era un elemento ritardante in ordine al suo impegno, anzi era l’elemento che più di tutti dava forza e quindi capacità di esprimere appieno la giustizia.
Anche i mafiosi dicono di credere in Dio.
Spesso i mafiosi si mostrano come coloro che vanno in chiesa, pregano, per darsi ancora una volta un’immagine. Ma è un’apparenza e la finalità è soltanto di essere riconosciuti e legittimati. E quindi avere più forza e consenso. Invece Livatino è un uomo che va a pregare perché quello è il momento della sua massima riflessione, come si può leggere negli appunti che scriveva sul Vangelo che teneva sulla scrivania. Ma quelle letture non lo allontanano dai parametri ai quali deve riferirsi un magistrato, anzi rafforzano perché diventa un uomo che vuole in pieno applicare i valori del Vangelo e della Costituzione.
Livatino diceva che la giustizia deve essere superata dalla carità. Sembra una contraddizione.
No, ancora una volta Livatino anticipava. Sono le prime tracce del nuovo modo di essere magistrati. In lui c’è il modello di magistrato che è rigoroso nel momento in cui esercita la giurisdizione, ma al tempo stesso è comprensivo. Un magistrato che vuole capire, che promuove il reinserimento di chi ha sbagliato o la sua riabilitazione, un concetto del cristianesimo e allo stesso tempo della nostra giustizia nel senso voluto dalla Costituzione. Anche in questo Livatino è un vero e proprio modello: capire e agire, capire e applicare in pieno la norma ma essendo comprensivi e sensibili, e quindi in grado di discernere le posizione. Lo ripeto, non era giustizialista ma giudice giusto.